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The Office: la straordinaria bellezza delle cose ordinarie

Attenzione: questo articolo contiene spoiler del finale di The Office (US).

Per me la cosa più interessante è l’ordinario: riuscire a comunicare la bellezza dell’ordinario, ecco il punto: prendere qualcosa che normalmente non si nota e mostrarne l’aspetto interessante, anche se è una cosa semplice” – Frank Cancian

Frank Cancian è un fotografo e antropologo forse poco noto. Alla metà del Novecento decide di partire dagli Stati Uniti per inoltrarsi nell’Irpinia, approdando nel piccolo paese di Lacedonia, al confine tra Campania e Puglia. Ha una borsa di studio in antropologia, vuole descrivere usi e costumi dei paesi del Sud Italia. Si immerge in quei luoghi e quei luoghi, quelle persone, gli entrano dentro come non credeva fosse possibile. Man mano, però, si rende anche conto di una cosa: le parole non bastano a descrivere la quotidianità, a immortalarne per sempre l’essenza.

The Office

Cancian impugna allora una macchina fotografica e cristallizza per l’eternità le forme del vivere quotidiano su pellicola. La sua attenzione è rivolta all’ordinario, alla gente comune. “Preferisco le cose ordinarie“, dirà a distanza di anni. “Cose che non sono ufficialmente importanti“. Attraverso l’ordinario e dall’ordinario riesce a estrarre l’essenza, il nucleo più vero e profondo delle cose. L’autenticità che commuove e sommuove l’osservatore della foto. The Office è questo, un’istantanea estremamente autentica della quotidianità.

The Office ci parla della quotidianità più assoluta e apparentemente noiosa, quella di un’azienda cartiera.

La vita di tutti i giorni di un gruppo di impiegati. I loro affanni, i piccoli drammi, l’ordinaria routine fatta di scherzi, errori, risate e oziosa attesa dell’orario di uscita. Ma ci parla soprattutto di persone, di macchiette spesso buffe e ipercaratterizzate. Goffi, ridicoli personaggi che costellano un grigio, anonimo ufficio.

Quei personaggi ci entrano dentro, lo fanno mano a mano. Non subito, non in una volta sola. Lo fanno a piccole dosi lungo le prime stagioni fino a diventare parte della nostra quotidianità. E così impariamo ad amare l’ingenua vacuità di Kevin, il cinico disinteresse di Stanley, l’ironia di Jim e l’affinità con Pam, la rigida, autistica, serietà di Dwight. Ridiamo ma non è mai una risata superficiale. Perché dietro ogni protagonista di The Office, dietro quell’ordinarietà apparentemente insignificante si nasconde una spesso pesante verità. Un’autenticità che rende ognuno di loro estremamente reale.

Michael e Toby

È quello che Pirandello definiva come “l’umorismo”, cioè “il sentimento del contrario”, la pesante consapevolezza che sta dietro la risata e che la mitiga. Perché c’è comicità nell’irresistibile bisogno di approvazione di Michael ma solo finché non ci rendiamo conto, in una magnifica seduta psicanalitica involontaria che lo vede protagonista con Toby (7×02), che quel bisogno gli deriva, fin da piccolo, dall’assenza del padre e dalla necessità di compiacere il patrigno.

Ecco l’umorismo, ecco il “sentimento del contrario”, la riflessione che attenua e approfondisce la risata.

Così Robert California nella 8×05 farà confessare a Kelly che dietro la sua frivolezza e la logorroica parlantina si nasconde la paura di rimanere da sola, senza nessuno. E Andy, alla costante ricerca di approvazione, non è altro che un figlio trascurato (significativo il lapsus con cui nel finale di serie chiama Darryl “Dad”, “papà” dopo che questi gli aveva rivolto un complimento). E ancora: l’ipercompensazione infantile di Erin è nient’altro che il riappropriarsi di un’infanzia che non aveva potuto vivere, abbandonata dai suoi genitori.

The Office scatta una foto alla vita di tutti i giorni. Alle persone che compongono quella quotidianità ordinaria. Ai loro difetti, alla goffaggine. Ma è una foto che nel momento stesso in cui mostra la parte comica riesce a rendere straordinariamente anche quella umoristica. Una foto che carpisce l’autenticità dell’ordinario. La profondità di ogni essere umano.

The Office

Quella foto la scatta Pam attraverso un acquerello che rappresenta semplicemente quell’ordinario, anonimo ufficio. Nessuno riesce ad apprezzare il disegno. O meglio, quasi nessuno. “You nailed“, le dice Michael guardando l’immagine, con quella sensibilità che solo un bambino sa avere, con quello slancio di commozione che troppo spesso gli adulti seppelliscono sotto un’aridità che chiamano “maturità”. “You nailed“, “Hai fatto centro“. L’hai colto, hai colto l’essenza, hai colto la straordinaria bellezza della nostra routine.

Sembra solo un edificio industriale ma non è così.

Quell’ufficio nel pennello di Pam si arricchisce del verde intenso degli alberi, dell’azzurro che si riflette nelle finestre. Si alimenta di tutti i rapporti umani che si nascondono all’interno. Degli amori passati, di quelli presenti e futuri, dei momenti di difficoltà, delle gioie. Si nobilita nella straordinaria normalità delle emozioni umane.

Nel finale di The Office confluiscono tutte queste sensazioni mentre i nostri vecchi “amici” scorrono sullo schermo in una toccante passerella d’addio. C’è la commozione che si affianca alla risata. Gli occhi si fanno lucidi mentre Creed intona una struggente canzone. E un attimo dopo Kevin, piangendo d’emozione, ci riporta il sorriso: “Oscar! Oscar! I think I’m gay“.

Creed

E di nuovo il cuore ha un sussulto davanti alla nostalgia di Andy, a quella bellissima frase: “Vorrei fosse possibile capire che stai trascorrendo i bei vecchi tempi prima che di fatto finiscano“. The Office ci fa ridere e ci emoziona per l’ultima volta. Scatta un’ultima foto e perfino Creed arriva a capire, a carpire il senso dei rapporti umani, di quella famiglia che l’aveva accompagnato per anni, con cui aveva condiviso tanto tempo: “Gli esseri umani hanno questo dono meraviglioso di rendere un posto casa“.

E così quel grigio ufficio si fa variopinto, riempito di ogni ricordo ed emozione, reso vivo e importante dalle persone che lo hanno abitato.

È così che l’ordinarietà si fa straordinaria. Che il quotidiano acquista profondità. Scrive Eudora Welty nella sua introduzione alle opere di William Eggleston, pioniere della fotografia artistica a colori e del culto del quotidiano: “Le fotografie straordinarie, efficaci, oneste, belle e implacabili hanno tutte a che fare con le nostre vite quotidiane. Riescono a mostrarci la grana del presente, come le venature di un tronco d’albero tagliato. Queste immagini ci parlano del mondo ordinario. E nessun altro soggetto è pieno di implicazioni quanto il mondo ordinario“.

Eggleston affermava di essere “In lotta con l’ovvio”: secondo lui sotto l’ovvio, sotto il palese, lo scontato e l’ordinario si nasconde, spesso, la scintilla dello straordinario. Sta al fotografo coglierla. The Office ci restituisce quella scintilla, lo fa in un acquerello così vivo e vivace da farci commuovere. Da farci per un momento dimenticare il logorio della nostra routine mentre, dentro di noi, esclamiamo: “You nailed“, “Hai centrato il punto“, The Office.

The Office

E la parola finale non può che essere affidata alla mano dell’artista, a quella Pam che prima di ogni altro aveva colto la bellezza dietro l’ordinario. “C’è molta bellezza nelle cose ordinarie. Non è questo il punto?“. Non sono gli oggetti, i luoghi, i lavori, la realtà esterna a custodire lo straordinario. Siamo noi con le nostre sensazioni, con le esperienze comuni, con la condivisione del quotidiano a imprimere profondità all’ordinarietà. Noi e i rapporti che faticosamente costruiamo facciamo sì che anche un grigio, anonimo, noioso lavoro si trasformi in un magnifico acquarello. Sta proprio qui l’autenticità della foto, l’emozione che ci smuove. Nella stra-ordinaria bellezza delle cose ordinarie.

Dedicato a chiunque coglie ogni giorno la straordinarietà in ciò che è ordinario

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