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Sweet Tooth è diventata ormai una delle sicurezze di Netflix

Da pochi mesi è andata in onda la seconda stagione di Sweet Tooth, serie fantasy di Netflix basata sull’omonimo fumetto di Jeff Lemire. Dal momento della sua messa in onda è entrata nella classifica delle serie più viste nel periodo dagli iscritti, confermandosi un prodotto decisamente gradito dagli spettatori e una certezza, non solo dal punto di vista della presa sul pubblico e del gradimento, ma una certezza di intrattenimento leggero e di qualità: una delle sicurezze di Netflix, in tutto e per tutto.

Inutile perderci troppo in chiacchiere: Sweet Tooth è un gioiellino e lo è sotto vari aspetti. Da una scrittura intelligente, brillante e divertente che però sa anche raccontare – pur sempre in chiave leggera – delle situazioni attuali e molto vicine alla nostra realtà, traslandole in un contesto fantastico che dovrebbe – in qualche modo – alleggerire la pesantezza del confronto con la realtà, ma che a volte è così pressante da diventare evidente nonostante i tentativi di mascheramento. Il fatto di poter riportare un’opera di finzione alla realtà delle vicende del nostro periodo storico non è affatto un elemento secondario, anzi è forse uno dei maggiori fattori di engagement che un prodotto seriale o filmico possa sfruttare sullo spettatore per guadagnarsi la sua attenzione e per fidelizzarlo.

Sweet Tooth
Sweet Tooth (640×360)

Sarebbe inutile sottolineare l’ovvio, ma a me piace perciò lo facciamo. Seppur ispirata a un fumetto scritto a partire dal 2009, l’elemento pandemico in concomitanza al periodo del rilascio della serie ha avuto un forte impatto e una forte presa su un pubblico che si trovava a vivere e affrontare una situazione analoga: una pandemia. Qualcosa che spaventa già in una narrazione finzionale e che adesso trova riscontro nella realtà. Poteva andare solo in due modi per Sweet Tooth: il pubblico saturo della questione pandemia avrebbe potuto rifiutare quel racconto (come accaduto per la diciottesima stagione di Grey’s Anatomy, ma lì i motivi sono anche altri) oppure trovare una forma di conforto, ma soprattutto di distanza da un racconto sulla pandemia che è simile a ciò che si viveva in quel periodo, ma che comunque non ci tange e nel quale il pubblico avrebbe trovato interesse rispetto alla mera rappresentazione: l’avrebbe trovata familiare, ma non minacciosa, e quindi l’avrebbe accolta con curiosità.

Per fortuna e per fortuna soprattutto dei produttori di Sweet Tooth e di Netflix, l’approccio del pubblico è stato il secondo e Sweet Tooth ci ha tenuto compagnia assieme ai suoi straordinari (in tutti i sensi) personaggi. Un altro elemento di realtà che leggiamo chiaro e tondo nel racconto è – ancora purtroppo – una denuncia a un fenomeno che a questo punto della nostra esistenza sarebbe già dovuto essere sradicato ed eliminato perché senza senso e inutile: la paura del diverso. La fobia per qualcosa che non si riconosce e l’annesso desiderio di annientare quel qualcosa, di demonizzarlo, di renderlo l’origine del male pur di non provare a conoscerlo, a comprenderlo. È diverso ciò che non conosciamo e, dunque, spaventa.

Ma non sarebbe molto più semplice provare a conoscere ciò che non conosciamo? Provare a capire chi abbiamo di fronte? Provare a vedere se – in fondo – con quel qualcuno diverso da noi, non ci siano poi più cose in comune di quanto ci si possa aspettare? E – a quel punto – potrebbe arrivare una realizzazione scontata come le certezze dell’universo stesse: ma diverso da chi, poi?

Sweet Tooth
Christian Convery e Adeel Akhtar (640×360)

È all’ordine del giorno sentire parlare di discriminazioni verso interi gruppi di persone semplicemente perché diversi da ciò che qualcuno si è arrogato il diritto di definire “normale“. Normale, una parola decisamente spaventosa, una parola che mi terrorizza dalla prima volta che vidi quel film con Nicole Kidman, “La donna perfetta“. Qualcosa che sembra voler smussare e eliminare tutte le particolarità di una persona, tutto ciò che rende qualcuno o qualcosa speciale, particolare. O semplicemente un tentativo di inserire e inquadrare, o meglio ancora ridurre qualcuno in una cornice ben definita per non permettergli di esprimersi oltre quella, “to put inside a box” direbbero gli amici anglofoni utilizzando l’immagine – a mio parere potente – di mettere qualcosa in una scatola, come se quella scatola fosse l’unico spazio di movimento per quel qualcuno.

In Sweet Tooth questo viene espresso dalla parte antagonista in modo veramente magistrale, soprattutto nella seconda stagione in cui si legge una specie di indottrinamento dei “normalirimasti tali. Gente che, seppur avrebbe potuto – in un contesto decisamente più aperto e favorevole, quindi non di dittatura – abbracciare e includere la novità e la reazione evolutiva al virus, adesso si trova a volerla estirpare alla radice nel modo più crudele e nazista (passatemi la gravità del termine) possibile.

Sweet Tooth
Christian Convery (640×360)

Mi rendo conto di aver trasformato con questo articolo una serie leggera in un trattato antropologico abbastanza noioso e scontato, ma ci tengo a ribadire (e questa è purtroppo una mia battaglia personale) che la leggerezza, soprattutto nei racconti audiovisivi non è mai sinonimo di superficialità o povertà di contenuti, anzi, è solo un meccanismo più complesso e ponderato di stratificazione e di mascheramento di significato nei vari livelli di lettura di un testo e/o di un prodotto.

L’atmosfera fantastica, l’introduzione di elementi visivi grandiosamente piacevoli e soddisfacenti per gli appassionati del genere, la presenza di un continuo proliferare di situazioni che rendono la narrazione dinamica e di personaggi sempre in continua evoluzione, rendono Sweet Tooth un prodotto squisitamente riuscito di Netflix e – in quanto tale – non può che confermarsi una delle certezze indiscusse della piattaforma, nonché – mi azzarderei a dire – del panorama seriale degli ultimi anni. Sì, questa serie mi è piaciuta davvero così tanto.