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«Aurelià, te m’hai cambiato a vita»

Suburra non è solo malavita e corruzione. Non è solo un racconto dell’avvento della Mafia nella città eterna. Suburra è molto di più. Una biografia di tre ragazzi tanto diversi quanto uniti nel faticoso scopo di prendersi Roma. Nelle grandi storie non è importante come tutto sia iniziato, ma come i fatti si siano evoluti a tal punto da creare sotto strati narrativi, espressione, in questo caso, di una città intera. Essa stessa satura di sfaccettature.

Spadino è probabilmente la rivelazione vincente della serie tv. Il personaggio che più di tutti ha incantato. Vuoi per simpatia, vuoi per compassione o per l’indubbia bravura del suo interprete. Nulla da invidiare al suo collega nell’ascesa al potere, Aureliano Adami, per il quale prova molto più che una semplice stima.

Quello che sei, qualsiasi cosa tu sia, non puoi esserlo qui. Dentro questa casa e questa famiglia, non puoi.

Per Spadino non è tutto oro quel che luccica. Un’abitazione disturbante, completamente arredata con sfarzo e lusso, macchine costose e matrimoni da circo. Il cattivo gusto della ricchezza Sinti nella capitale non è frutto di fantasia, è realtà. Quest’ultima si confonde con l’immaginazione in un gioco pericoloso. Spesso per mascherare o rendere  determinati avvenimenti meno crudi o più fruibili per chi guarda.

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In Suburra non è diverso. A essere realtà è anche e soprattutto la storia di Spadino, espressione di tanti come lui che non hanno deciso come e dove nascere,ma che, tuttavia, ne devono pagare il prezzo. Dietro la ricchezza e il potere ostentato, si nasconde un ragazzo fragile, con le sue incertezze e i suoi desideri.

In Suburra, Spadino è il completo opposto del criminale per antonomasia. È snello, poco virile, simpatico, alla mano e per giunta omosessuale. Non poteva esistere miscela peggiore per un ragazzo nato e cresciuto in una famiglia criminale con determinate tradizioni e aspettative sulla sua vita. Spadino è il grido di speranza di un popolo percosso e schifato dalla società stessa e, più in profondità, il grido di ognuno di noi. Di quella parte nascosta e debole. Una parte che tentiamo di murare agli occhi del mondo. Un terribile macigno da sopportare e portare sulle proprie spalle, giorno dopo giorno.

Spadino c’ha provato, con grinta e coraggio, inciampando più volte nel fallimento. C’ha provato davvero. Tuttavia è difficile e improduttivo cambiare la vera natura di se stessi. È onnipresente, un’ombra che si scaglia violenta dentro il petto togliendoti il respiro. Ti fa brancolare come una bestia ferita. Se non si è grado di prevenire una tale ferita, va curata. Spadino, infine, ci ha dimostrato che è possibile farlo.

La colpa è a mia. Me metto a fa l’impicci co questo che è fijo de na guardia e co te che sei no zingaro de merda!

La vera forza in Suburra non è tanto quel che viene presentato a noi, occhi esterni di una storia, ma quello che i personaggi rappresentano, a seconda del punto di vista di chi li guarda e di chi li vive. Aureliano Adami, per Spadino, è l’uomo che gli ha salvato la vita. Colui che gli ha permesso di curare le ferite della sua anima e uscirne più forte. Uscirne libero.

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Mettersi in affari con Aureliano ha significato poter essere definitivamente se stesso: senza freni e senza doveri. Involontariamente, il nostro amato protagonista ha fatto dono allo zingaro della più preziosa tra le possibilità: la rinascita. L’affermarsi di un uomo nuovo, libero di poter scegliere la sua strada, come e quando vuole.

Con un dono simile, viene meno ogni potenziale e tragico avvenimento. Non importa che il cugino e il fratello siano stati uccisi dalle stesse mani per lui benefattrici. Non importa che Aureliano non ricambi il suo amore. Egli ha reso possibile la morte di quella controparte di Spadino che lo teneva soggiogato a una vita di frustrazioni.

Aureliano rappresenta la parte forte di ognuno di noi. La parte che, almeno all’apparenza, non viene scalfita da niente e da nessuno. La parte che Spadino è riuscito a uccidere, trasformando l’ombra dentro il suo petto in luce. È probabile che lo stesso amore nei confronti di Aureliano non fosse reale, ma una proiezione di quel che sarebbe voluto lui stesso essere. Un’esaltazione dell’amico sfociata nella concreta manifestazione della sua debolezza più invalidante.

Per farli felici te dovrei ammazzà, pe faje vedè chi so’. Ma io nun c’ho bisogno d’ammazzatte pe capì chi so’. Non c’ho niente da dimostra a nessuno, nemmeno a te.

Dimostrare al mondo il nostro valore, è il più oneroso tra i fardelli. Una scure che pende sulle nostre teste e danza, al ritmo di note cupe, prodotte da un musicista corrotto e assuefatto. Questa è la società, un organismo che ci sfrutta e si beffa di noi, incurante del nostro lavoro o della nostra classe sociale. Spadino, proprio come noi, è stato obbligato a tirar fuori il proprio valore.

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Il terribile gioco consiste nel finire nei panni della vittima o del vincitore. Dare la possibilità a noi stessi di esprimere la nostra vera natura producendo il più grande dei valori. Un valore che non sarà soggiogato da niente e da nessuno. Far sì che le note del musicista diventino solo un flebile eco, onnipresente, ma non più nocivo.

In Suburra, Spadino è tutto questo e molto di più. Una tavolozza piena di colori, pronti per essere usati e modellare inaspettatamente un profilo già delineato. Donargli nuovi dettagli, un volto più umano e sensibile. Spadino, grazie ad Aureliano, è il reale vincitore del gioco. La fenice che rinasce dalle sue ceneri, il riscatto della parte debole, viva, dentro ognuno di noi.

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