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Ciao Calcà, te volevo dì grazie.

No, non sono un regazzino a cui davi ripetizioni, no. Se semo visti pe’ puzza mezza volta dal vivo e vengo da un quartiere che t’ha lasciato qualche brutto ricordo come hai raccontato ‘na volta, periferia Roma nord (che per inciso, famose a capì, ve se magna a voi del sud). Però anche se non se conoscemo te volevo grazie.

Io di strappare lungo i bordi non sono mai stato capace, è questo che m’ha fregato e mi continua a fregare. Però ho sempre sognato di insegnare, sì, quel brutto mestiere che ti fa dire “Ma chi te lo fa fare, ma non lo vedi come ti riduce?”. E lo so, Calcà, ma quando c’hai una vocazione la devi seguì, pure se è difficile strappare lungo i bordi. Pure se è brutto quando non ti danno la possibilità di fare quello per cui hai studiato, ti sei formato e verso cui i bordi che hai tracciato ti hanno sempre portato. Non è facile, a volte diventa impossibile, ce l’hai detto tu. Ma non sono qua per dirti grazie di questo.

Alice

No, non solo almeno. C’hai presente i film, no? Quali? Un film qualunque: se c’è un funerale c’è ‘sta scena strappalacrime dove piangono tutti e si respira in ogni dove un’aria sacra. Bello, no? No. A me ha sempre dato l’aria di posticcio. Poi sei arrivato te, e al solito hai dovuto fa’ il bastian contrario, non t’è stato bene omologarti. Mo che roba è uno che fa battute sprezzanti a un funerale? E quell’altro che chiede il gelato, dai! Ecco, no, ti volevo dire grazie.

Quest’anno è morto il mio migliore amico, tanto perché la vita non te deve mai fa mancare nulla. Se n’è andato così e c’ha lasciato a noi il peso della sua assenza.

Ricordo quando qualche giorno prima del funerale ho visto il fratello, altro mio grande amico. Mi è venuto incontro, ci siamo guardati intensamente e m’ha detto: “Il dolore in natura è il più potente degli afrodisiaci”. Una citazione che ci ha sempre fatto ridere da un film cult che conosciamo a memoria (se non sai qual è, hai qualcosa da vederti a ‘sto giro). Abbiamo riso. C’avevamo la morte dentro, ma abbiamo riso. Questo lo puoi capire tu, Calcà, perché l’hai spiegato tanto bene in Strappare lungo i bordi.

Strappare lungo i bordi

Non è che non soffrissimo e se proprio dobbiamo fa partì una menata psicologica possiamo dire che era lo shock a farci comportare così. Pure fuori dalla chiesa, ci siamo messi là, tutti noi amici: tanto che importanza poteva avere sentire le parole di un prete che non l’ha conosciuto? Ci siamo messi a ricordarlo e a ridere. Che banda di matti.

Che fosse lo shock o fosse solo il modo più vero per salutarlo fatto sta che è così che è andata. E non m’è sembrato un modo sbagliato per sentirlo con noi. M’è sembrato il modo meno scenografico forse, più folle visto dall’esterno e incomprensibile, ma anche quello più autentico possibile. Semplicemente è stato così.

Io, te l’ho detto, di strappare lungo i bordi non sono mai stato capace e spesso per mia stessa colpa, perché sono un gran cretino dalla capoccia dura.

Poi è arrivata una ragazza, sono diventato timido ma sono rimasto lo stesso capoccione, solo un po’ più maturo. Mi sono sentito come te con Alice ma ho avuto la fortuna che lei facesse la mossa finale (così l’ho fregata, sì, ha firmato la cambiale, contratto vincolante!). Ora continuo a strappare fuori dai bordi, ma da quando è morto il mio amico ho sgravato un po’ troppo. Anzi, a dirla tutta sono stato un grande str**zo: con i miei amici, la mia ragazza, le persone che mi circondano. Lo sai pure te perché. Perché c’avevo sta rabbia, tipo quando ti cancellano la tua serie preferita, però moltiplicato per mille, tipo. E me la prendevo con gli altri: chi l’ha più visti i bordi.

E poi so’ stato pure cogl**ne egocentrico, come te, a pensare che tutto girasse attorno a me. “Non è che potevi determinà se viveva o moriva”. E invece io mi dicevo: magari se avessi fatto questo, se non avessi fatto quest’altro, se non avessi minimizzato quel dolore che mi diceva di avere. Se non avessimo crocifisso Gesù Cristo… La capoccia mia ormai stava impostata nella modalità è colpa mia de tutto.

Zerocalcare

Oh ma la smetti? Te senti sto cazzo e pensi che c’hai il potere di vita e di morte sulle persone attorno a te”. Serve sempre qualcuno che te lo dica, una Sarah che te lo sbatta in faccia. Che ti sbatta in faccia quella tua egomania che usi per sentirti protagonista di un film che non è tuo. Ho capito che il dolore mio era pure quello degli altri e che a fa il bambino, però, ero solo io. E allora su quella ferita ho finalmente deciso di piazzacce qualche punto. Giusto il tempo per sfracellarmi il ginocchio (sono stato da solo il principe degli sgambetti) e doverne mettere altri dodici, di punti. Ma stiamo divagando. Torniamo a noi.

Te lo volevo rincontà. Ti volevo mostrare da vicino questa vita di un altro, come da vicino tu c’hai mostrato la tua e quella di Alice.

Hai ragione, “Siamo proprio stracci, brandelli sottili e ciancicati uguali alle vite che se ritrovamo in mano”. Siamo forme frastagliate che si illudono di poter strappare lungo i bordi. E invece lo strappo ci conduce sempre, o quasi, verso altri lidi. Ma questo non significa che non dobbiamo sognare, o che dobbiamo smettere di sperare e inseguire i nostri desideri. A volte, Calcà, quegli strappi con giri assurdi ci portano esattamente dove non avremmo mai pensato di poter essere. Tu lo sai.

Ho perso il mio amico, Calcà, però a quel funerale siamo comunque riusciti a stringerci attorno al fuoco ricordandoci “Che tanto alla fine tutti i pezzi di carta so boni pe’ scaldasse”. E a dire il vero, adesso, mi sento un po’ più al caldo. Mi sono operato al ginocchio, è passato qualche mese e ora sto reimparando a camminare. Sì, tipo un neonato che muove i primi passi: e ci stanno pure i familiari là che te dicono bravo e te fanno festa perché metti un piede davanti all’altro. So’ tornato un pupetto, roba da matti. Perché nella vita è così, cadi e ti rialzi. Ma quando ti rialzi devi reimparare a camminare e non è facile.

Strappare lungo i bordi

Sto reimparando a camminare da più di una caduta, Calcà, ma il processo è sempre lo stesso e con ostinazione si può perfino riprendere a correre. Quello che ti rimane, come dici tu, è la cicatrice. Quella non passa. “È come una medaglia che nessuno ti può portare via”. Me le guardo ‘ste due cicatrici, una sul ginocchio, l’altra più in profondità, e so che avrò sempre la soddisfazione di portarle con me perché mi ricordano che sono caduto ma anche che ho saputo rialzarmi. Mi ricordano che ho avuto un migliore amico che per quindici anni mi è stato sempre accanto e con cui ho condiviso i miei momenti più felici. Mi ricordano che questa è la vita. E va vissuta. Sempre. Anche quando strappare lungo i bordi diventa impossibile.

Grazie, Calcà.

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