Il grande ritorno di Patrick Stewart, all’età di 79 anni, al ruolo che lo ha eternato nel piccolo schermo, è stato un evento atteso e desiderato. Star Trek: Picard è ambientata in un periodo in cui la Federazione – un’unione di pianeti con valori e interessi democratici condivisi – è diventata isolazionista in risposta a un attacco terroristico. Ma al contempo questa nuova avventura nello spazio ci ha dimostrato di essere un’interpretazione divinamente oscura e moralmente desolante dell’universo di Star Trek a cui siamo stati abituati.
Basti pensare che l’episodio 5 si apre con un personaggio amato che urla mentre il suo occhio viene strappato dal suo cranio. In un’altra scena, un ammiraglio della Flotta Stellare dice a Picard – il grande, eroico capitano Picard, un uomo la cui voce è costruita come una bellissima cattedrale – “Stai zitto!”. Questi piccoli esempi sono solo una modesta selezione del cambio di cifra narrativa che ha attraversato, e forse travolto, Star Trek: Picard.
La reazione, comprensibilmente, è stata mista. Alcuni fan hanno accolto con favore uno Star Trek che viene aggiornato nell’aspetto, rendendolo più vicino alla televisione contemporanea. Altri però sostengono che tale pessimismo è in contrasto con ciò che rende Star Trek, Star Trek. Lo showrunner Michael Chabon, rispondendo alle domande tramite la sua pagina Instagram, ha difeso Picard contro quest’ultima affermazione dicendo che “è l’ombra che definisce la luce“, e che “se nulla può scuotere la perfezione della Federazione, allora è solo una terra magica“.
È un sentimento e soprattutto una chiave interpretativa che è stata già utilizzata anche in passato. Alex Kurtzman, lo showrunner delle altre serie in corso ambientate nello stesso universo, Star Trek: Discovery, aveva giustificato la sua altrettanto violenta, profana e oscura sensibilità sostenendo che il moderno Star Trek è semplicemente un riflesso del suo tempo.
Viviamo in un’epoca definita dalle possibilità e post-verità dei social media.
Un’epoca dal futuro incerto dell’automazione, dalla crescente disuguaglianza, dall’aumento del populismo, dallo spettro dei cambiamenti climatici e, naturalmente, dal fatto che stiamo vivendo una pandemia con il potenziale per essere il periodo più significativo e traumatico della nostra storia dalla seconda guerra mondiale in poi. Star Trek: Picard certamente riflette molte di queste preoccupazioni. E non c’è da meravigliarsi che alcune delle più popolari serie sci-fi degli ultimi 20 anni – dalla tecnofobia di Black Mirror alle ansie post 11 settembre di Battlestar Galactica – non abbiano esattamente una visione entusiasmante del futuro.
Tuttavia l’idea che questo basti per renderla matura e pertinente, mentre l’ethos dello Star Trek di un tempo sia ora uno stile ingenuo o troppo vecchio per sopravvivere, sembra davvero mal giudicata. La speranza, l’ottimismo e la sincerità della serie originale degli anni ’60 erano in se stesse un atto radicale: un modo di ritrarre il futuro come avrebbe dovuto essere. Un cast multirazziale in un momento di lotta per i diritti civili: pace e cooperazione in un momento di terrore nucleare. Non certo un semplice sguazzare nelle cose così com’erano.
Negli anni ’90 lo spin-off più dark, Deep Space Nine, anticipa già i temi di Star Trek: Picard di ben 27 anni. Ci veniva infatti mostrato cosa sarebbe successo nel momento in cui i principi della Federazione fossero minati e compromessi dalla guerra. La differenza, però, era che Deep Space Nine, proprio come il migliore degli Star Trek, riuscì a bilanciare i suoi temi più delicati di “disturbo da stress post traumatico”, fede e atrocità in tempo di guerra con episodi in cui tutti si vestivano per visitare una versione olografica degli anni ’60 a Las Vegas.
È questo, più di ogni altra cosa, che fondamentalmente manca al moderno Star Trek. Un senso di consistenza tonale, uno spirito di curiosità per mondi e culture diverse e la chimica scoppiettante di una squadra vivace e interessante.
Invece, proprio partendo dallo stesso Jean-Luc Picard, i suoi nuovi personaggi sono emersi, nel migliore dei casi, come degli ologrammi, privi di alcuna profondità, e nella peggiore delle ipotesi, decisamente vuoti e sgradevoli. Un esempio su tutti è Michelle Hurd che interpreta Raffi Musiker: ex ufficiale della Flotta Stellare che insiste nel chiamare Picard “JL” (invece di Jean-Luc) che fa risultare il loro rapporto troppo fuori tema per risultare credibile e convincente.
Anche la lunghezza limitata della serie che – come sembra ormai una prassi – è quasi un’unica storia di 10 ore, è un altro fattore. Il vantaggio delle vecchie stagioni da 20 episodi, in cui una squadra di personaggi si trova ad affrontare un problema diverso ogni settimana, non è solo nella possibilità di mostrarcela quasi come una famiglia, ma anche nel potenziale di sperimentare una varietà di storie e temi diversi, in altrettanti contesti e scenari. I focus di Picard e Discovery tendono invece a essere così stretti e concentrati che come diretta conseguenze anche lo stesso universo nel quale si sviluppano finisce per risultare più piccolo, meno vivo e meno interessante. Modesto.
Eppure bisogna spezzare una lancia a favore di Star Trek: Picard. La serie ha saputo una volta in più, e questo sì meglio dei suoi più illustri predecessori, affrontare il tema del senso della vita. Non solo come significato esteso e universale rispetto a una intera razza. Declinazione che era già presente anche nel passato e che qui è stata ripermutata verso i synth, ma scendendo invece nel particalo. La singola vita. Quella di Data, sempre magistralmente interpretato da Brent Spiner, ma non solo. Le vicende attorno allo stesso Jean-Luc Picard e alla giovane Soji ne sono un paradigmatico esempio. La vita come valore intrinseco e identitario. Un significato delicato ma comunque vibrante.
Purtroppo però è troppo poco rispetto a quello che erano le aspettative e hai contenuti delle passate interpretazioni dell’universo di Star Trek.
L’appetito del pubblico moderno per quell’era passata della narrazione di Star Trek esiste ancora e non dà segno di essersi appagato. Oggi che purtroppo siamo tutti rinchiusi nelle nostre case per l’immane tragedia che il mondo sta vivendo, una dose di ottimismo sul futuro sarebbe stata forse più apprezzata. Ma purtroppo ci è stata data solo una Star Trek che in realtà non sembra affatto Star Trek. E un Jean-Luc Picard che nella maestosità della sua presenza, inalterata dal tempo, difetta dello charme e dell’aurea dell’indimenticato capitano di The Next Generation. Confidiamo speranzosi nella nuova stagione.
Lunga vita e prosperità.