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Slow Horses: i cavalli di razza si vedono alla fine

“Il lieto fine dipende dal momento in cui fai finire la tua storia” (Orson Welles).
Non c’è un vero e proprio lieto fine per Slow Horses, perché non c’è ancora una fine. La seconda stagione ha superato il traguardo e non con lentezza, come ci suggerisce sempre il titolo della serie, ma attivando colpi di scena, azione allo stato puro, incastro di momenti clou, sangue versato anche per pura casualità. La trama incruenta e sì, il ritmo lento ma accattivante della prima serie, avevano lasciato a Slow Horses l’ambiguità di essere riconosciuta come spy story, non marcatamente identificabile come Homeland che viene anche ricordata per il suo finale. La seconda serie è veramente una corsa contro il tempo e quello che sembra reale non lo è, dalla minaccia di una bomba pilotata su Londra da un’agente russo dormiente, all’approssimativo River Cartwright (Jack Lowden) che cade nella mistificazione per poi riscattarsi all’ultimo minuto, da chi si credeva totalmente dalla parte del giusto come David Cartwright (Jonathan Pryce) e si scopre essere il mandante di un omicidio del quale l’ineffabile Jackson Lamb (Gary Oldman) è esecutore.

Il passato diventa l’ago della bilancia degli eventi presenti. Come sempre, bastava seguire i soldi. Tutto il diversivo è stato orchestrato non solo per beffare Lamb e la sua sgangherata squadra ma per creare un diversivo per raggiungere il vero obiettivo, la ricchezza dell’oligarca russo dissidente Nevsky. Slow Horses riesce in un’operazione da cinefili, unire la sorpresa alla suspense. La bomba sotto il tavolo di Hitchcock alla bomba che non c’è, spostare l’attenzione su qualcosa di eclatante per portare a termine altro, niente che deflagri con rumore o morti, un semplice storno di conto, neanche un clic, una chiavetta USB da inserire in un PC. Un crescendo di azione con montaggio sapiente senza perdere di vista l’ironia o la presa in giro dell’intelligence dimostrando che con poco i sofisticati meccanismi di sicurezza possono non essere più a salvaguardia di nessuna sicurezza.

Dietro il muro

Slow Horses (602X295)

C’è sempre una separazione che divide il visibile dal non visibile, da quello che sarebbe potuto accadere a quello che è stato sventato. Tra il qui e l’altrove c’è una divisione, un muro che a volte può essere abbattuto, più raramente scalato, più spesso può restare baluardo invalicabile come tra la vita e la morte. Min Harper (Dustin Demri-Burns), uno degli Slow Horses per eccellenza, assegnato alla banda di perdenti per aver lasciato un disco dati su un treno di pendolari, con vita e matrimonio mediocri che si affranca da tutti e due, vita terrena compresa anche se per quest’ultima non per sua volontà.

Ucciso per aver visto, senza neanche rendersene conto, qualcosa che sarebbe dovuto restare dall’altra parte del muro. Davanti all’ineluttabile, al confine insormontabile con la morte, Jack Lamb non si ferma, si muove in prima persona. Il suo abito resta sgualcito e sporco mentre il suo animo si ripulisce dalle scorie e dalle grinze dell’indifferenza. Decide che è tempo di prendere parte, non tutto può essere lasciato andare nell’ignavia. Non ci sono discorsi movitazionali di circostanza, semplicemente fa, agisce, conscio che anche facendo non riporterà in vita né Min Harper né Dickie Bough (Phil Davis). Ex agente dei servizi dall’aria vissuta e indiscutibilmente spiegazzata come Lamb, non per niente hanno lavorato assieme.

Il viso di Dickie Bough non ha incontrato il rasoio almeno da una settimana. Occhi spenti che si risvegliano vedendo un uomo alto, muscoloso e calvo, un agente come lui ma del paese sbagliato. Il pedinamento lo porterà all’appuntamento con la propria morte, sul sedile di un autobus che si svuota al capolinea e lo lascia da solo come ha sempre vissuto. Questa è la morte che Jack Lamb fa sua, nella quale molto probabilmente proietta se stesso. Un bravo agente che ha finito la sua carriera nell’anonimato nel quale è vissuto, non riconosciuto dai vertici, lasciato a consumarsi nell’alcol. Lo stesso Lamb non lo aveva più cercato né aveva avuto sue notizie per 30 anni. In un attimo Lamb vede in lui quello che pensa in fondo di essere, con qualche beneficio in più. Non si è mai preoccupato della vita sbilenca di Dickie Bough e decide allora di occuparsi della sua morte trovandone l’artefice.

Il muro non sarà mai abbastanza alto da tenerlo lontano dalla verità. L’ultima sequenza vede Lamb ed i suoi riuniti nella chiesa di Saint Leonard che accoglie su una parete le targhe degli agenti morti con onore al servizio della patria. Ne ha fatto inserire una a ricordo di Min Harper che altrimenti non avrebbe ricevuto nessun riconoscimento perché ufficialmente morto in bici falciato da una macchina, non in azione.

Dickie Bough lo ricorda con un post-it scritto a mano, “Dickie Bough served behind the Wall. A Joe”, Dickie Bough ha servito dietro il Muro, spia sotto copertura (Joe). I cavalli di razza si vedono alla fine, al di là del muro.