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Skins è uscita oltre dieci anni fa, ma riesce a essere più attuale di The End of the F***ing World

L’adolescenza è impressa nei nostri cuori. È un ritratto di pavida malinconia che accarezza le corde più sensibili del nostro animo. È l’urlo di un ragazzino che tenta di frantumare l’infrangibile vetro dell’età adulta, con le sue responsabilità e i suoi compromessi. Afferra, come un rapace, e squarcia i nostri pensieri, giorno dopo giorno, con maggior tenacia. Il compromesso non esiste nell’età dell’adolescenza. Esiste il desiderio accecante di prendersi il mondo e farlo proprio, plasmarlo con le proprie idee e convinzioni. Esiste il sentimento di libertà e di fuga: da se stessi, da gli altri, da una società che ci vuole grigi, imprigionati da catene pesanti. Ingombranti e difficili da distruggere. In questo Skins, dopo undici anni, continua a stupire.

La sua bandiera ancora sventola, con fierezza, su uno spaccato della vita, di cui tanti hanno scritto. Sebbene nella poesia dei grandi nomi venga spesso esaltata, la giovinezza è un periodo tutt’altro che floreale. Un cammino di transizione, granitico, il quale si trascina dolori, incomprensioni e paure, le cui cicatrici risultano ancora visibili a un occhio attento. Skins è proprio questo. Un ritratto crudo  e duro di un’adolescenza problematica, lo stesso dipinto che The End of the F***ing World tenta di emulare, dopo dieci anni.

Skins

Il tema è vincente. L’emulazione risulta una strategia di esecuzione dal colpo sicuro e le produzioni inglesi ci riprovano, affiatate, inseguendo il successo. Nel 2007 eravamo abituati a show da tante stagioni. Skins non fa la differenza, proiettando il suo romanzo in un ciclo di varie generazioni. Cambiano i tempi, cambiano i ragazzi, ma non cambiano le impostazioni narrative nei confronti di emozioni che non hanno età e solo in parte sono espressione di un determinato contesto sociale e urbano. Difatti sono simili i profumi che si respirano in ambedue le serie tv britanniche.

Abbiamo ragazzi affetti da disturbi e martoriati da disagi interiori, famiglie problematiche e incuranti alle spalle. Una società che ghettizza invece di porre ausilio e sostegno, relegando così in un angolo una parte di se stessa. Quella dei ragazzi perduti, della gioventù dannata e bruciata, tipica di un contesto periferico. Sebbene questi temi siano molto simili, Skins ancora domina la scena. In questi anni ancora è possibile udire l’eco di una generazione simbolo del decennio scorso.

the end of the fucking world

The End of the F***ing World senz’altro risulta vincente nell’originalità tecnica. È interessante farsi cullare da singoli frame rievocanti sketch pubblicitari anni ’60, conditi da colori talvolta vivaci talvolta desaturati. Piccole fotografie che ben si sposano con la campagna inglese. Veloce, spontanea, dritta al punto. È ciò che oggi il pubblico vuole e forse il più grande demerito di uno show che non riesce a essere completo quanto il suo predecessore.

Per poter essere descrittivi, poter raccontare in ogni dettaglio e ogni sfumatura il disagio e il dramma della periferia inglese, è necessario il tempo, elemento ormai inafferrabile a molti. Skins dopo undici lunghi anni è ancora il ritratto di quell’adolescenza nella quale noi stessi ci sentiamo protagonisti, seppur con i dovuti dosaggi. La droga, l’incertezza sessuale, i primi amori, i disturbi alimentari, sono solo alcuni dei protagonisti in Skins. È uno spaccato reale di un contesto sociale ancora vivo e acceso.

Storia completamente diversa per The End of the F***ing World, nella quale con i due protagonisti si respira un’aria di grottesco, fortemente sopra le righe. Il tema della più recente mini serie britannica pone l’accento sulla psicopatia del singolo, allergico a una preimpostata, tuttavia sana, comunità collettiva. In Skins abbiamo l’esatto opposto: il racconto del singolo non è altro che il pretesto narrativo finalizzato all’esaltazione della forza collettiva, del sentimento reale di un’età, in cui tutti possiamo rivederci. È il tonfo metallico di incudine, il calpestio frenetico di ogni singolo secondo di gioventù. Periodo di vita detestato quando vissuto e amato quando ormai è uno sfocato ricordo del nostro passato.

Skins

In Skins, a differenza di The End of the F***ing World , possiamo provare empatia, possiamo essere uno dei sette ragazzi protagonisti. Riusciamo a piangere, a emozionarci, a provare amore. Noi stessi passivamente recitiamo, gli attori non sono che meri esecutori mascherati, interpreti di uno spettacolo che non ha palcoscenico, ma vive nei caratteri e nelle esperienze di ogni ragazzo nel mondo.

In Skins, dopo undici anni, non è cambiato nulla. La società ancora contribuisce a creare gli stessi demoni che gli attori affrontano. Sembra che il tempo si sia fermato e, seppur con le dovute differenze, il ritratto rimane il medesimo, a distanza di anni. Il messaggio è chiaro, non usa stratagemmi, è proprio come il periodo preso in esame: grintoso, sensibile, sofferto. The End of the F***ing World,  per quanto risulti uno show originale e accattivante per narrazione, storia e resa visiva, è una racconto adolescenziale castrato. Una pillola da ingoiare, agrodolce. Un figlio che prova a emulare il padre, ma non riesce a imporsi e rimane solo una storia, una come tante.

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