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Six Feet Under parla di vita, morte e tutt’altro che di miracoli

Six Feet Under inizia e finisce allo stesso modo: con la morte. Ma prima della morte, c’è la vita. Nel mezzo, tra le due cose, ci siamo noi: frangibili, vulnerabili, spesso insoddisfatti. A volte lo siamo talmente tanto da non riuscire ad apprezzare il semplice fatto di esistere, quasi lo malediciamo. Fatichiamo ad arrivare a fine giornata senza maledire le nostre vulnerabilità, le prime colpevoli della nostra debolezza. Ed è questo ciò che succede all’interno di Six Feet Under, questo è ciò che succede a tutti noi, anche quando non ce ne accorgiamo. I personaggi della serie raccontano la morte come un atto finale, dopo una vita passata su un palco in cui spesso bisogna improvvisare. Siamo al centro della sala e il copione che abbiamo studiato per cercare di fare tutto alla perfezione viene dimenticato. Da quel momento, qualsiasi cosa accada su quel palco, sarà nostra responsabilità, frutto della nostra improvvisazione. Possiamo anche scegliere di scendere dal palco, di non rischiare niente. I personaggi di Six Feet Under scelgono di rimanere. Scelgono di improvvisare, anche se a volte gli riesce male.

Six Feet Under

Ed è proprio su quel palco che Nate capisce che nella vita non esiste alcun tipo di miracolo, che le nostre paure non spariranno e che, quasi sicuramente, finiremo a sei piedi da terra insieme a loro. Se l’anima è davvero immortale, queste non potranno mai morire. Ciò che proviamo, le nostre assurde paure, la vulnerabilità che le caratterizza, ogni cosa finisce con noi a sei piedi da terra.

Per questo motivo, Six Feet Under, si macchia di una realtà che esclude qualsiasi tipo di miracolo, e che mette in un angolo tutto quello che si eleva al di sopra di noi. I personaggi della serie vedono ciò che vogliono vedere, e trovano conforto in parole che non ascoltano da nessuna parte, se non dalla loro coscienza. I discorsi a cui danno vita hanno il solo obiettivo di trovare il metodo, quello giusto, per salvarsi, per ricominciare da qualche parte, fino a che tutto ciò che siamo, e tutto ciò che abbiamo intorno, non si spegnerà.

Six Feet Under è una serie che si limita a raccontare il mondo terreno, senza mai provare a fare delle ipotesi su ciò che accade dopo. Più che della morte, forse, Six Feet Under parla della perdita, di quello che succede a chi – invece di partire – resta. Analizza i rimpianti e i rimorsi di chi avrebbe ancora potuto fare qualcosa e non l’ha fatta. Racconta di quello che sarebbe potuto succedere se avessimo fatto questo invece che quello. Entra all’interno delle vite di chi impara a fare a meno di qualcuno, e cerca di tirare fuori tutto quello che – in quell’esatto momento – si prova. Non gli dà alcuna pacca sulla spalla, e non gli fa alcuna promessa. Quel dolore, da quel momento, non smetterà di pulsare. E noi, così come i personaggi, non smetteremo mai di sentirne il male.

Eppure, senza l’ausilio di qualcun tipo di miracolo, Six Feet Under racconta di come le cose restino, nonostante la nostra dipartita. Ciò che abbiamo fatto, il nostro aver vissuto, ciò che abbiamo costruito, il male che abbiamo causato – ma anche la felicità che abbiamo recato – ogni cosa di queste rimarrà rendendoci eterni, in un modo o nell’altro.

Finale SFU

Non esistono miracoli dentro Six Feet Under, non esistono neanche consolazioni. La verità sulla vita, almeno quella di cui siamo a conoscenza, si limita a essere raccontata nelle sue meraviglie e nelle sue disgrazie, nel suo bianco e nel suo nero. La morte e l’esistenza, così, si fondono all’interno di un unico passo a due diventando co-dipendenti. Una non può esistere senza l’altra, e noi non possiamo esistere senza di loro. Una ci fa il biglietto di andata, e l’altra quello di ritorno. Decidono la nostra venuta e la nostra dipartita, ma quello che accade nel mezzo lo decidiamo noi mentre cerchiamo di capire come fare ad andare via senza rimpianti, senza perdere tutto quello che la vita – durante quegli anni – ci ha dato l’opportunità di conquistare.

Purtroppo per noi, spiega Six Feet Under, morire soddisfatti di tutto quel che si è fatto è un’impresa ardua, un’operazione che ha una grande percentuale di non riuscita. Eppure, ogni giorno, viviamo cercando di arrivare pronti a quel momento, coscienti che nessuno ci dirà mai quando si paleserà. Anche senza farci troppo caso, senza dargli troppo peso, abbiamo un obiettivo, ed è questo: finire a sei piedi sotto terra coscienti di aver dato tutto, sia nel bene che nel male, come succede ai personaggi di Six Feet Under.

Il finale della serie, infatti, mostra la fine definitiva di ognuno dei personaggi. Come nella vita reale non esiste alcun felici e contenti. Come nella vita reale esiste solo vissuti, e poi morti.

Six Feet Under non insegna e non giudica, non impara e non inventa. Esclude tutto ciò che non è certo e – semplicemente – racconta la vita di una famiglia che non dimentica neanche per un attimo che ad aspettarla, alla fine del lungo calvario dell’esistenza, non ci sia altro che la morte. Ognuno di loro, alcuni consciamente e altri no, fa il suo massimo per giungere preparato a quel momento. Rischia, sbaglia, cade, mangia felicità e poi vomita. Si concede la malinconia e un piatto di tristezza. Fa quello che non dovrebbe mai essere fatto, si fa odiare e poi si fa amare, a volte si fa amare e odiare nello stesso momento. Fa tutto quel che deve fare, che vuole fare, e poi si addormenta.

Finisce tutto così, anche se fa male e spaventa. Ma d’altronde, che cosa dovremmo farci con la comoda possibilità dell’immortalità?

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