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Ci sono serie che intrattengono, altre che commuovono, alcune che fanno riflettere. Six Feet Under riesce a fare tutto questo contemporaneamente. Poi, con calma, ti sferra un pugno nello stomaco. Non perché voglia scioccarti, ma perché ti costringe a guardare dritto negli occhi qualcosa che tendiamo sempre a scansare: la morte. Attenzione, però: Six Feet Under non è una serie sulla morte. È una serie sulla vita che si confronta con la morte (ne abbiamo parlato in maniera approfondita in quest’articolo sul senso della vita). Una lente attraverso la quale osserviamo i Fisher, e con loro noi stessi, mentre cercano di capire come si fa a vivere sul serio, sapendo che tutto finirà.
E non finisce in generale. Finisce per davvero. Per tutti. Prima o poi. Come si fa, dunque, a continuare a lavare i piatti, rispondere alle mail, dire ti amo, se in fondo sappiamo che tutto è destinato a svanire?
L’originalità di Six Feet Under sta nel mostrarci che proprio quella consapevolezza, la morte quotidiana, silenziosa, a volte ridicola, può diventare una guida etica, un principio attivo di verità. Ogni episodio inizia con una morte, spesso assurda, banale, grottesca. È un inizio, sì, ma anche una domanda implicita: e tu, come vivresti oggi se sapessi che potresti morire domani? Nel panorama televisivo, nessuno prima era riuscito a raccontare così bene l’assurdo e la grazia di essere vivi. O meglio, quasi nessuno. Anni dopo, un comico britannico dal sarcasmo tagliente ha raccolto, inconsapevolmente o no, quella stessa eredità. After Life, la serie creata da Ricky Gervais, ci mostra un uomo devastato dal lutto che, pur credendosi morto dentro, continua a inciampare nella vita: un cane che vuole uscire, una collega che lo ascolta, una pizza mangiata da solo.
Là dove Six Feet Under ci accompagnava con sguardo empatico e malinconico, After Life ci strattona con cinismo e ironia. Ma alla fine la domanda è la stessa: come si vive dopo la perdita? E che senso ha tutto questo, se comunque finisce?
Prediamo un attimo di fiato perché… forse non c’è risposta. O forse sì, ma non è fatta di parole. È fatta di gesti piccoli, di connessioni fragili, di dolori che non passano ma si trasformano. È fatta di serie come queste, che non ci offrono consolazione, ma qualcosa di più raro: consapevolezza.
Six Feet Under: il lutto come struttura narrativa…

C’è qualcosa di rassicurante nel formato delle serie TV: sigla, personaggi familiari, trama orizzontale, qualche svolta… poi tutto torna a posto. Ma Six Feet Under decide di rompere quel patto non scritto. Ogni episodio inizia con una morte. Una morte vera. Una morte qualsiasi. E noi, spettatori, sappiamo che non possiamo fare niente per evitarla. Succede. Subito. Sempre.
Potrebbe sembrare una trovata narrativa, e in parte lo è. Ma è anche un manifesto filosofico travestito da espediente seriale. Ogni decesso è un memento mori, un promemoria elegante (ma neanche troppo) che ci ricorda la nostra condizione: mortali, fragili. Provvisori. Vi siete mai chiesti quante volte, mentre scorrono i titoli di testa di una serie, pensate alla vostra stessa fine? Ecco, Six Feet Under vi costringe a farlo.
Il lutto diventa così non solo tema ricorrente, ma vera struttura narrativa: è attraverso il dolore che i personaggi si trasformano, si rivelano, si smascherano. Perché il dolore, quando è autentico, ha un potere scomodo. Toglie il superfluo. E una volta tolto il superfluo, cosa resta? Chi resta?
Claire, per esempio, che da adolescente rabbiosa e confusa comincia a intravedere, tra una cremazione e una mostra fotografica, la possibilità di una sua forma di libertà. O David, che solo dopo aver toccato il fondo della paura e del trauma, impara ad accettare chi è. E Nate, il personaggio più tragico di tutti, che continua a illudersi di poter eludere la morte… finché la morte non gli ricorda che non si scappa da se stessi.
…e filosofica
Se vi suona familiare, state tranquilli, non siete impazziti! Qui siamo in pieno territorio esistenzialista. Heidegger direbbe che la morte è ciò che ci rende autentici. Sartre aggiungerebbe che siamo condannati a essere liberi. E Camus ci inviterebbe a sorridere all’assurdo, magari mentre ci facciamo il nodo alla cravatta per un funerale. Six Feet Under non cita questi filosofi, ma li incarna, li mette in scena, li rende carne e sangue. Cenere e silenzio.
E non c’è bisogno di aver studiato metafisica per capirlo. Basta aver perso qualcuno. Basta essersi chiesti, almeno una volta, cosa succede quando non succede più nulla. E da lì, da quello spazio vuoto, vedere se siamo in grado di ricominciare.
Non sarà forse proprio questo il cuore della serie? Non la morte in sé, ma quello che succede dopo. O meglio: quello che succede a chi resta.
Six Feet Under: il dolore come spazio di verità…
C’è un momento, in Six Feet Under, in cui ti accorgi che non stai più solo guardando una serie. Ti sta guardando lei. E non sta cercando la tua approvazione. Ti osserva mentre ridi di una battuta macabra a tavola, mentre ti stringi il cuore per un abbraccio mancato, mentre ti chiedi se anche tu, come Nate, come Ruth, come Claire, stai solo recitando la parte che ti è stata assegnata.
La famiglia Fisher non è la classica famiglia americana. O meglio: lo è. Ma sotto la superficie ordinata del salotto, sotto i fiori freschi del funerale di turno, ognuno di loro è una bomba emotiva pronta a esplodere al momento sbagliato. O forse al momento giusto. Dipende da cosa intendiamo con giusto, quando si parla di sentimenti.
In casa Fisher, il dolore non è solo una presenza: è la loro lingua madre. È la grammatica profonda con cui leggono il mondo e si relazionano gli uni agli altri. Non sempre riescono a dire ti voglio bene, ma sanno come mostrarsi a pezzi. E a volte, è proprio in quei pezzi che si vede la verità. Come ogni lingua madre, anche questa non è sempre dolce: può essere tagliente, confusa. Piena di silenzi. Ma è la loro, e non ne conoscono un’altra. È con quella che cercano un senso, che sbagliano, che si riconoscono. Ed è con quella che, puntata dopo puntata, imperfettamente, imparano a guarire.
C’è l’amore, certo. Ma c’è anche l’incomunicabilità, quella densa, quotidiana, che si infiltra tra le parole non dette. Ruth, la madre, che tenta disperatamente di rimettere insieme i pezzi di una vita in cui non si è mai davvero riconosciuta. David, che nasconde dietro la compostezza un’urgenza d’amore feroce. Claire, che brucia di domande che nessuno ha il coraggio di ascoltare. E Nate, il figlio prodigo che torna a casa e scopre che la casa è un luogo pieno di fantasmi. Soprattutto i propri.
…e di adattamento
Il bello (o il terribile?) è che Six Feet Under non ti promette mai la catarsi. Non c’è un grande momento in cui tutto si sistema. Non c’è un grande momento in cui tutto si sistema, in cui i personaggi si abbracciano e la musica sale di volume. Nessuna redenzione confezionata, nessuna verità definitiva che arriva a placare il caos. La serie non vuole salvarti. Vuole mostrarti.
Perché il dolore, in Six Feet Under, non è un ostacolo da superare. È un paesaggio in cui ci si muove. Un territorio instabile, ma reale. Non è il tunnel che si attraversa per tornare alla luce: è la stanza in cui imparare a respirare, anche quando manca l’aria. E se sei fortunato, impari anche a muoverti. A starci dentro. A non fuggire.
Questo spazio, scomodo, silenzioso, insopportabile, diventa col tempo uno specchio. Non uno di quelli che restituiscono l’immagine che uno vuole vedere, ma uno che ti mostra ciò che sei quando nessuno ti guarda. Il dolore, così raccontato, non trasforma con violenza, ma svela. Non plasma come una forza esterna, ma ci riporta alla nostra forma più nuda.
Ecco perché Six Feet Under resta, ancora oggi, una delle opere più radicali mai apparse in televisione. Perché non consola, non rassicura, non promette guarigioni. Non dice che andrà tutto bene. Dice che andrà, e basta. E che, nel frattempo, possiamo guardarci in faccia. E forse riconoscerci.
Six Feet Under: la ricerca di senso come bisogno umano…

Non è necessario credere in Dio per porsi domande spirituali. Basta aver visto qualcuno morire. O nascere. O innamorarsi quando non si voleva, o perdersi quando si pensava di avere tutto sotto controllo. Basta essere vivi. Six Feet Under non è una serie religiosa, ma è profondamente spirituale. Non predica, non converte, non giudica. Piuttosto domanda. E lo fa con una semplicità disarmante. Esiste qualcosa dopo? E prima? Ha senso tutto questo? Oppure è solo un insieme di atti a caso che chiamiamo vita?
I personaggi cercano risposte nei modi più umani e fallibili possibili. Tra le pagine di un libro, nei letti sbagliati, nelle ceneri di chi se n’è andato, nel corpo di chi resta. Ma non trovano mai una risposta definitiva. E forse è proprio lì che la serie dice la sua verità più profonda: non serve trovare un senso oggettivo per vivere con senso.
L’assenza di dogmi non è vuoto, è spazio aperto. È l’occasione per costruire da sé una qualche forma di significato, per quanto fragile e provvisoria. Una scelta etica, più che metafisica: quella di restare. Restare anche quando è più facile fuggire, anche quando tutto appare insensato. Restare a vivere.
Il finale della serie, con la sua epifania visiva e silenziosa, non ci dà spiegazioni. Non ci mostra l’aldilà, ci mostra la fine. Ma quella fine, così piena di immagini, di nomi, di volti, diventa paradossalmente un inno alla vita. Non una vita perfetta o eterna, ma quella che abbiamo: breve, incasinata, irripetibile. Quella che può essere amata solo sapendo che finirà.
… e come forma di cura
Anche After Life, a modo suo, si pone la stessa domanda: che senso ha vivere, quando si è perso tutto? Tony, il protagonista, non trova conforto nella religione, né tantomeno nella filosofia. Trova però, lentamente, un senso nella cura. Nella gentilezza spicciola, quella fatta di gesti minimi e apparentemente inutili: dare da mangiare al cane, ascoltare una collega, lasciare una monetina sul bancone.
Six Feet Under non lo dice apertamente, ma suggerisce qualcosa di simile. La cura degli altri è forse la forma più concreta di spiritualità laica che la serie ci propone. I Fisher non sono santi, anzi. Spesso sono egoisti, contraddittori, confusi. Ma proprio in mezzo alle loro fragilità emergono atti di cura autentica. Nate che accompagna una famiglia nel lutto pur non credendo in nulla. Ruth che prova a fare la madre quando ormai i figli sono adulti. David che sceglie di restare anche quando tutto gli suggerisce di scappare.
Forse prendersi cura è il massimo che possiamo fare in un mondo senza certezze. Forse è questo il senso: esserci per qualcuno, anche quando non abbiamo risposte. Non per salvare l’altro, ma per non lasciarlo solo. E in quel gesto semplice, quasi invisibile, c’è tutto.
Six Feet Under: l’eredità come traccia emotiva…

Ci sono serie che si ricordano per la trama. Altre per i personaggi, per la fotografia, per la colonna sonora. Six Feet Under si ricorda per come ci lascia. Per quel senso di vuoto pieno, di malinconia lucida, di silenzio che resta nelle stanze quando tutto è finito. Non è una serie che si racconti facilmente. È una che ci ha cambiati senza che ce ne accorgessimo, e solo dopo, col tempo, ci siamo resi conto di quanto.
Non ci dà risposte, ma lascia domande incastrate tra le costole. E quando la vita vi tocca quelle domande tornano a galla. Cos’è che resta davvero? Cosa significa vivere una vita “giusta”? Chi ci saluta quando non ci siamo più?
L’eredità emotiva di Six Feet Under è sottile ma potentissima: ci ha insegnato che non serve drammatizzare la morte per renderla significativa. Basta guardarla. Basta stare. Senza retorica, senza eroismi. Solo con la verità, per quanto imperfetta sia. E in quel gesto, piccolo, televisivo, invisibile, ha cambiato qualcosa dentro di noi.
… e come cambiamento culturale silenzioso
Prima di Six Feet Under, la morte in TV era spesso uno strumento narrativo: un modo per far avanzare la trama, per suscitare shock o pietà. Dopo, è diventata, lentamente, quasi senza farsi notare, un luogo di riflessione. Una cosa da dire, da mostrare, da attraversare senza tagliare via gli angoli più scomodi. Come se la serie avesse aperto un varco: da lì in poi, era possibile raccontare il dolore, il lutto, l’assenza senza bisogno di veli o spiegazioni rassicuranti.
La cultura pop non è cambiata all’improvviso. Ma Six Feet Under ha posto una pietra miliare: ha insegnato che si può fare intrattenimento parlando della fine. E che, paradossalmente, parlare della fine ci riporta sempre al principio: chi siamo? Perché ci amiamo? In cosa crediamo davvero?
Non ci ha lasciati più forti. Non più felici. Ma forse più consapevoli. E questo, in un mondo che corre per non sentire niente, è già una rivoluzione.
Six Feet Under: la fine come punto di rivelazione…
Tutte le storie finiscono. Ma poche finiscono così. Il finale di Six Feet Under non è solo uno dei più celebrati della storia della televisione: è una visione esistenziale. Un congedo che non cerca di confortarti, ma di mostrarti la vita nella sua totalità: fatta di relazioni, scelte, errori, partenze, ritorni. Fatta, soprattutto, di tempo che scorre. E che, inevitabilmente, finisce.
In quella corsa silenziosa in macchina, accompagnata da Breathe Me di Sia, Claire guarda fuori e noi, con lei, vediamo tutto il futuro. Tutto ciò che è destinato ad accadere. I volti che cambieranno. I corpi che invecchieranno. I nomi che scompariranno. E allora ci chiediamo: era questa la catarsi? Sapere che si muore? O forse sapere che si è vissuto?
Non c’è trionfo. Non c’è lieto fine. C’è la consapevolezza. E in quella consapevolezza, così umana, limpida, straziante, c’è tutta la verità che ci serve.
… e l’eredità di ha osato dire tutto
Six Feet Under non ha alzato la voce. Non ha fatto proclami. Non ha dato lezioni. Ha semplicemente osato dire tutto. Sulla morte, sull’amore, sull’identità, sull’impossibilità di essere all’altezza delle aspettative. Nostre, degli altri, del mondo. Ha parlato del lutto come condizione, non come incidente. Della famiglia come campo di battaglia affettivo. Della vita come qualcosa che non si capisce, ma si attraversa.
E lo ha fatto con delicatezza, ironia, profondità. Senza cercare soluzioni, ma offrendo uno sguardo. Quello sguardo che, una volta incontrato, non ti lascia più.
E allora forse questa è davvero la sua eredità più grande: averci insegnato a guardare. A guardare il dolore, la perdita, la bellezza, la paura. A guardare la vita. Tutta intera, anche nei suoi angoli più scomodi. Senza distogliere lo sguardo.
E da quel momento in poi, anche noi, spettatori, non siamo più gli stessi.