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L’esigente pretesa di riconoscerci e idealizzarci nelle storie delle Serie Tv

Tantissime cose sono semplicissime: portare a spasso il cane, mangiare, coordinare i nostri passi, fumare una sigaretta, imparare a guidare, scegliere tra un panino e un altro, tra il dolce e il salato. Durante la nostra esistenza facciamo una lista infinita di cose ordinarie, impeccabilmente perfette, soddisfacenti, ma non ci basta. Per più della metà del tempo dimentichiamo che spesso tutto quello che fa parte della nostra giornata sia una cosa semplice, e ci dilaniamo soltanto pensando a tutto quello che semplice non è, a tutto quello che ferisce, rompe, disintegra, scombina la nostra ordinarietà. Mentre anneghi cerchi di aggrapparti a te, alle tue fantasie, sperando che la tua immaginazione – unita alla tua quasi fastidiosa e forzata speranza – riesca a tirarti fuori da quell’acqua che vuole risucchiarti dentro un vortice che, purtroppo, hai costruito con le tue mani forsennatamente. Così inizi a convivere con tutto questo, e con la certezza che forse non meriti la metà delle cose che hai e la consapevolezza che potresti perderle tutte, e il colpevole di tutto questo sei solo tu. Convivere con questo peso, con la certezza che l’anello debole della tua vita sia tu, il suo fautore, non sarà mai una cosa semplice: ti farà scappare dagli altri, da te stesso. Ti costringerà, a un certo punto, a venire a patti con la tua essenza malconcia, e sarà quello il punto in cui sentirai di esplodere. Cadrai in un circolo vizioso in cui cercherai di edulcorare le tue sofferenze con delle idealizzazioni, pensando a quanto le delizie della tua sofferenza possano fare dei miracoli rendendoti qualcosa di più che mediocre, o rotto. Ed è qui che la tua immaginazione inizia a volare con l’obiettivo sacrosanto di salvarti. Non importa in che modo o come. Da questo momento tutto verrà distorto e ti cercherai ovunque, anche nelle cose più semplici, anche nelle storie che non esistono di una normalissima Serie Tv.

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Ti vedo mentre guardi Robin sfuggire a Ted pensando a quanto sia affascinante il loro rapporto così impossibile, ma ancora esistente. La osservi cercando di riconoscere nella tua incapacità di aprirti il suo stesso lato interessante. Magari è così che ti vedono da fuori, magari è così che sei in realtà: una Robin che non ce la fa ad assecondare tutta quell’ordinarietà di eventi, ma che ha la necessità di evitarli per non sentirsi soffocare, per darsi quell’impressione di essere libera. Durante quelle nove stagioni, per venti minuti al giorno, il tuo lato schivo, cinico, realista che ti costringe a guardare nuvole dove tutti vedono cielo è quasi giustificato, è quasi interessante. Perché quello che succede è che hai bisogno di mordere la tua insoddisfazione, farla tacere un po’ e almeno per venti minuti idealizzarti in qualcosa che in realtà non esiste, ma che forse potrebbe aiutarti comunque.

Ti guardo anche mentre cerchi di idealizzarti in un cartone animato con la speranza che un cavallo antropomorfo possa giustificare la tua tendenza ad auto sabotarti, a non saperti tenere nulla in mano perché non sai stringerlo lasciandolo irrimediabilmente libero, prossimo a una caduta. BoJack Horseman in questo senso è fondamentale: per ogni tuo casino ne ha uno suo a disposizione, un perdono che gli arriva dall’alto della forte pazienza di chiunque gli stia accanto. Pensi che forse anche tu potrai farla franca. Ma poi la fitta rete di errori e perdite si abbatte su di lui, e tu perdi la speranza che si possa ovviare ai tuoi errori, che le tue responsabilità possano non mai venirti a chiedere il conto per tutte le volte in cui le hai evitate. Vedi quel cavallo chiudere la serie con la promessa che forse le cose finalmente a un certo punto cambieranno in meglio e ti rassereni: magari se c’è speranza per lui, ce n’è anche per te. Ed è così che quando finisci quell’ultimo episodio ti senti svuotato, irremovibile. Hai finito quella che sicuramente era la Serie Tv più adatta a te, quella che raccontava di te anche senza sapere nulla di tutto quello che sei e che fai.

E così lo capisci. Il genere di Serie Tv che fa per te è quello umano, quello che racconta cosa succede individualmente a ognuno di noi con gli esempi più stupidi e con quelli più mastodontici. Necessiti di storie che si prendano l’impegno di sviscerare i nostri vizi, la nostra dipendenza all’auto distruzione. É l’immaginazione unita all’idealizzazione il compromesso che hai stipulato con le tue sofferenze, e nulla più dei personaggi delle Serie Tv, o del cinema e dei libri, potrebbe riuscire in questo.

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Vivi il disagio esistenziale di Patrick Melrose, lo guardi mentre sprofonda nella sua tristezza e scopri che quello che stai vedendo fa al caso tuo. La Serie Tv che hai di fronte non vive di dinamicità o eventi che si susseguono ma sceglie di gettare tutta la sua attenzione sulla vulnerabilità disastrata del protagonista. Questo è il centro della storia: guardarlo soffrire in modo reale senza l’obbligo del lieto fine, senza la necessità di violentare la nostra intelligenza illudendoci che le cose a un certo punto, solo con l’ausilio del tempo, miglioreranno. A volte è così, ma non vale per tutto, e non vale sempre per noi. Insieme a noi in questo vortice c’è lui, ed è così grande. Lo guardiamo nelle cinque puntate che si susseguono e ne siamo affascinati. Anche se si auto distrugge, anche se non ce la fa più, è – per noi – uno dei migliori personaggi mai scritti, la nostra perfetta idealizzazione della sofferenza.

Non siamo bravi neanche nei rapporti. Il nostro armadio presenta un’infinita serie di scheletri che ci ricordano tutte le occasioni che ci siamo lasciati scappare solo per paura, solo perché non siamo bravi a fare il primo passo, perché siamo vigliacchi e codardi. Normal People ha cercato di curarci le ferite raccontandoci una storia normalissima, un sentimento che – anche se vivo, combattuto e vissuto – non sempre può stare ai nostri comodi. Non si può controllare ogni particella di questo pianeta, alcune cose devi solo lasciarle vivere libere con la consapevolezza che – com’è giusto che sia – prenderanno la loro strada anche senza il nostro consenso. Durante quelle 12 puntate sei autorizzato a idealizzare il rapporto burrascoso che hai perso o che stai vivendo, hai l’okey per pensare che ci sia qualcosa di bello in quello che in realtà poco a poco ti distrugge, e il finale di Normal People non fa eccezione. L’incognita che si presenta nella vita dei due protagonisti è la concreta realizzazione del mancato controllo che abbiamo spesso nelle cose. Pensi che forse la volta buona sia giunta, ma questo non è una garanzia di felicità. L’unica garanzia che hai è quel momento stesso, per il domani dovrai arrangiarti con l’arte dell’improvvisazione.

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Ti guardo ancora mentre segui l’evoluzione dei personaggi di Friends. Ti osservo mentre scopri, insieme a loro, quanto arrivare ai trent’anni sia un lungo calvario in cui ognuno si aspetta qualcosa da te: un successo, un obiettivo raggiunto, un progetto reale. Ogni personaggio arriva alla sua svolta con calma, senza sentirsi stringere una morsa al collo, lo fa con leggerezza. In quel momento pensi che forse anche tu meriti quell’esatta sensazione, che tutto quello che pensi ti stia rallentando faccia solo parte del pacchetto, che anche se non vanti di grandi obiettivi raggiunti va bene comunque. Intorno a te vedi sempre e solo successi. Sono tutti bravissimi, sanno arrivare ai trent’anni con estrema attenzione, con degli obiettivi chiari. Tu non li hai, e non li hanno neanche i sei personaggi di fronte a te che sono – in realtà – così normali. Allora finalmente lo pensi per quei 20 minuti forniti dalla puntata: è normale anche essere come te, confuso.

Non vogliamo Serie Tv dilanianti, ne vogliamo di reali. Solo con il loro racconto della normalità riusciremo a sentirci vicini a quello che viene raccontato, solo così riusciremo a metterci nei panni di chi potrebbe fornirci una chiave di lettura diversa. Solo con i piedi per terra riusciremo a vedere cosa stiamo calpestando, e non volando. L’immaginazione, per salvarci, ha bisogno di toccare il compromesso esistenziale tra quello che è vero e quello che non lo è, e i personaggi delle Serie Tv in questo senso sono perfetti: finti, si, ma con storie reali.

Fleabag, Patrick Melrose, BoJack Horseman, How I Met Your Mother, Mad Men, Californication, Normal People, Modern Love, Sex Education, Skins, Friends e chi più ne ha più ne metta. Sono tutte Serie Tv differenti tra loro – alcune fanno ridere, altre piangere e altre entrambe le cose – ma hanno una cosa in comune: sono un’ancora per i nostri fallimenti emotivi e non solo. Ci caricano di congetture, di idealizzazioni, ci danno il salvagente e poi – una volta detta la loro – chiudono i battenti. Da quel momento sei costretto a tornare alla normalità, a guardare il tuo riflesso e non quello di un attore che racconta una storia o di un regista che ne dirige una. Sicuramente sarà tutto più disastroso e meno patinato, senza dubbio non avrai la risposta pronta come loro, e sarai costretto a improvvisare. Sei nel tuo palco e probabilmente non conosci neanche la parte che stai recitando, sai solo che è la tua e non puoi barattarla. Zitto zitto, ingannando i tempi e sbagliando le battute, fai ormai parte della tua storia. E adesso sono solo cavoli tuoi.

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