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La classifica delle 5 migliori Serie Tv britanniche di sempre

2) The Office

Peaky Blinders

Una comedy tra le migliori serie tv britanniche? Decisamente sì, se parliamo di The Office UK, serie madre dell’altrettanto fortunata versione statunitense. Nonostante gli appena dodici episodi totali, The Office rappresenta una vetta forse inarrivabile di comicità e profondità. Non solo la migliore comedy britannica ma tra le migliori in assoluto nella storia seriale. Qual è la sua forza?

Apparentemente non c’è altro che la stanca, ripetitiva quotidianità a regolare una storia tutta incentrata sulla vita d’ufficio di una compagnia che produce carta. Ma proprio sulla vacuità si fonda la straordinaria capacità espressiva dello show. Facendo propri tratti già sviluppati in Seinfeld, serie del “nulla”, The Office squarcia il velo della realtà e ci mette davanti alla routine più semplice. Alle piccole ansie, alle gioie sparute, alle aspettative tradite e al senso di fallimento.

Ricky Gervais come sempre arriva un po’ più in là degli altri. La sua ironia a volte cruda e scorretta diventa la maschera che invece di coprire scopre la realtà. L’iperbole che affonda il coltello nelle ipocrisie della società, nelle illusioni e nei compromessi. Gervais (comico senza risata, clownesco profeta dei nostri tempi) svuota tutto di significato, distrugge il mondo mettendolo alla berlina. E quello che rimane è la più essenziale, pura autenticità del reale.

Il capolavoro più recente, After Life, ha messo in luce il suo lato emotivo attraverso una splendida analisi del lutto e sugli effetti della morte in chi continua a vivere. The Office invece pone l’ambito lavorativo come nucleo della trama e dell’indagine. Gervais si cala nei panni di un capoufficio inetto, compiaciuto di sé ma nello stesso tempo capace di ascoltare e di comunicare emotivamente con l’altro.

the office

Ma il protagonista ombra è un altro. È Tim, un trentenne che sente di fare un lavoro senza alcun significato. In lui si concentra tanto l’intelligenza più vivace quanto l’incapacità totale di agire. Inviluppato in un ciclo di routine senza apparente via d’uscita, Tim soffre l’assenza di senso dei nostri tempi. Non c’è un valore che possa sorreggerlo, che possa spronarlo. E così cade nel loop dell’anonimato. Per il personaggio non è stato scelto a caso Martin Freeman, un attore, come già visto, capace di condensare in sé un’apparenza fisica di anonimato ma anche l’improvvisa espressività di una mente brillante.

A far da contorno tutta una serie di personaggi che sembrano usciti da una commedia classica. Non macchiette stereotipate ma archetipi di una fascia della popolazione inglese in cui il pubblico si rivede e finisce per riderne. In questo microcosmo racchiuso tutto in un ufficio, l’agonia del lavoro – il purgatorio di un’attività svolta con inevitabile svogliatezza – si scontra con i tentativi di distrarsi attraverso il gioco e lo scherzo, la negazione dei propri difetti (che non fa altro che metterli ulteriormente in risalto) e il disperante tentativo di trovare un senso.

Tutti sulla scena diventano maschere di se stessi, grottesche caricature di modi d’agire, atteggiamenti mentali e convinzioni che fanno parte del nostro essere. La risata si fa così amara, maschera anch’essa di un disagio interiore e della negazione di quel disagio. The Office è una serie che scava a fondo apparentemente senza dire nulla. Che parla di noi stessi con personaggi apparentemente eccessivi. Una serie che descrive il nostro tempo e tutte le sue contraddizioni senza la volontà di tracciare una direzione, di indicare una soluzione. Anche se quel finale…

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