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Aslaug e Cersei a confronto: quando l’amore materno è cieco

L’amore materno è una forza insondabile, incomprensibile, infinita. L’amore di una madre può riversarsi su tutti i figli ugualmente, può preferire uno di questi, o non avere altra scelta che travolgere l’unico cucciolo con una forza propulsiva di inenarrabile potenza. Può arrivare a distruggere i figli, e le madri stesse, può arrivare a uccidere chiunque si frapponga fra la madre e l’oggetto del suo amore. Può vedere qualcuno da amare quando tutti gli altri vedono un mostro. Ed è proprio quando l’amore, anche quello che dovrebbe essere il più puro, diventa ossessivo, patologico, sbagliato, che risulta interessante, soprattutto se parliamo di Serie Tv. E l’amore di Aslaug e Cersei per i loro figli “mostri” è l’aspetto che unisce di più queste due regine bellissime, tormentate, sfortunate.

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Aslaug e Cersei hanno pochi aspetti in comune (escluso l’essere regine, amare alla follia i loro figli, essere adultere e amare il vino), e anche i loro figli non potrebbero essere più opposti: Ivar è diverso fin dalla nascita, il suo handicap è subito evidente e forgia la sua personalità instradandola verso i sentieri più oscuri persino per il figlio del celebre vichingo Ragnar. Joffrey, primogenito della regina Cersei, non ha niente che non vada esternamente, ed è proprio questa apparente normalità a rendere più subdola e pericolosa la sua diversità: Joff è una psicopatico puro, incapace di provare amore, empatia, compassione, interessamento per qualsiasi cosa, di scarsa intelligenza e scaltrezza, violento e irrazionale, un bambino che non crescerà mai.

Personalità opposte, quindi, che indirizzano i personaggi verso strade diverse: Ivar imparerà a usare la sua diversità per imporsi sugli altri e diventare il capo che è destinato a essere, mostrandoci alternativamente genio e sregolatezza, sensibilità e ferocia, rendendo palpabile e sempre ribollente quella rabbia che lo rende quello che è, tratteggiando un personaggio sempre in bilico tra la grandezza e il baratro creato dalla sua stessa mente. Joffrey finirà vittima della sua stessa insensata cattiveria, mai mitigata da un barlume di umanità, ma sempre considerato dalla sua instabile madre come il gioiello più splendente della sua corona.

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Personaggi e situazioni, quindi, che divergono su moltissimi aspetti, ma non sulla natura dell’amore che queste madri provano per i loro reietti figli: un amore incondizionato, scellerato, morboso, che consuma alternativamente l’una e l’altro ma che non può prescindere da esso per continuare a vivere.

Aslaug allatta Ivar ben oltre la tenera età, rendendolo oggetto delle prese in giro dei fratelli; un atteggiamento che indica un rifiuto a lasciar andare, un attaccamento morboso di una madre che non vorrebbe mai che il piccolo lasciasse il nido. Cersei giustifica la malvagità del figlio in tutti i modi, facendosi forza della sua autorità, negando a se stessa il fatto che le azioni di Joffrey non siano semplici marachelle di bambino, ma spietati atti di pura perversione.

Entrambe sono cieche all’oscurità che riempie i cuori dei loro figli, un’oscurità che parallelamente cresce in loro, rendendole stanche, dispotiche, disattente ai loro doveri nei confronti del resto della loro prole in nome dell’attenzione che devono a quel figlio “speciale”. Eppure, in un certo modo, la purezza del loro amore ci fa quasi intravedere qualcosa di buono in questi due mostri: un bambino spezzato, cresciuto in un mondo in cui la prestanza fisica è tutto, che con la sola forza di volontà riesce a intraprendere la più improbabile scalata al potere.

Un figlio del peccato, maledetto dagli dei prima ancora di nascere, sul cui capo ricadono le colpe degli scellerati genitori.

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Le nostre reazioni al destino dei due figli dell’oscurità è, però, opposta: non possiamo non empatizzare con le sofferenze di Ivar, provando allo stesso tempo paura e ribrezzo quando lo vediamo esternare il buio che ha nella mente. I nostri sentimenti per il vichingo senz’ossa sono ambigui, dettati dal fatto che, come Ragnar, intravediamo la grandezza in lui, e il mostro che si cela dietro di essa: il destino di Ivar si compirà se sarà capace di soffiare sulla lama ardente, dopo averla colpita con forza. Solo così, alternando pazzia e genio, potrà compiere il suo destino.

Ed evitare l’orribile fine toccata invece a Joffrey, per il quale è difficile se non impossibile provare pietà, neanche quando lo vediamo in piena agonia. Ma proviamo vera, autentica pietà per la disperazione di sua madre, che sul cadavere del figlio muta in un attimo il dolore in rabbia senza fine. Così come proviamo empatia per Aslaug, che con il suo occhio interiore assiste impotente al naufragio del figlio, inerme e indifeso di fronte al muro d’acqua che travolge lui e suo padre, in quel viaggio che, come Ivar dice a sua madre, “vale un’intera vita di compatimento”.

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Aslaug intravede la grandezza del figlio, e riesce a farsi da parte per consentirgli di seguire la sua strada, anche se questo significa perderlo per sempre (Ivar non morirà nel naufragio, ma Aslaug verrà comunque giustiziata da Lagertha).

In questo senso, l’amore di Aslaug per il figlio è più saggio, più maturo di quello irrazionale di Cersei, che nasconde i problemi di Joffrey, difendendolo fino allo stremo per la smania di porre la corona sul suo capo. Le due madri saranno chiamate a rispondere dei loro peccati d’amore, in modi diversi: Aslaug verrà criticata aspramente dai suoi figli per le attenzioni eccessive che ha sempre dedicato ad Ivar, mettendo da parte il resto della nidiata (e mettendoli anche in pericolo di vita).

A Cersei, invece, toccherà la punizione più atroce: assistere alla fine di tutti i suoi figli, rimanendo sola a contemplare l’inesorabile fine della sua casata. È nell’amore, che queste due grandi donne si assomigliano, ed è nell’amore che divergono; ma è nel dolore, il dolore assoluto che una madre può provare per la sofferenza del figlio, che le loro figure si fondono, mettendo in comunicazione quei due grandi universi emozionali che sono Vikings e Game of Thrones.

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