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Oppenheimer – La recensione di uno dei film più attesi dell’anno

Oppenheimer di Cristopher Nolan è un film che restituisce in maniera onesta la controversa personalità del fisico statunitense. Un film che saprà farsi ricordare per alcuni momenti chiave grazie alla forza delle immagini e di una regia sempre attenta che si esalta nei momenti onirici ma che talvolta rischia di diventare eccessivamente didascalica nell’esposizione degli eventi. Nota di demerito la figura di Fermi, sempre trascurata dalla narrazione americana e ridotta da Nolan a mera macchietta.

Compi i tuoi atti ma non occuparti del loro frutto
Bhagavadgītā

Nella recensione di Oppenheimer bisogna partire da qui, da questa brevissima frase che dovette risuonare a lungo nei pensieri e nel cuore del fisico statunitense. È tratta dalla Bhagavadgītā, testo sacro dell’Induismo in cui epica e didattica si fondono e confondono continuamente in una stratificazione cronologica che ha reso l’opera quella che è attualmente. Il guerriero Arjuna è chiamato a una decisione difficile che comporterà la morte di tutti i suoi empi familiari. A guidarlo nella scelta è Kṛṣṇa, la manifestazione fisica di Viṣṇu che lo mette a parte dei preziosi insegnamenti che fugheranno i dubbi dell’eroe.

Arjuna è scosso dall’incertezza, dallo scoramento paralizzante: non è più nello stato di natura, non può più rispondere alle semplice regole naturali ma è chiamato a diventare strumento del dio. E questa caduta inevitabile dal paradiso dell’incoscienza comporta una scelta etica fatta di faticose salite morali e fisiche. Così dovette sentirsi Oppenheimer, così, a suo tempo, si sentì Einstein. Nel film entrambi i fisici si affiancano e oppongono, sembrano legarsi da leggi ora di attrazione ora di repulsione. Immancabilmente l’uno vede qualcosa di sé nell’altro: ma riconoscersi significa anche rendersi conto del brutto che c’è in se stessi.

Oppenheimer e Einstein
Oppenheimer e Einstein (640×360)

L’Oppenheimer di Nolan, come il vero Oppenheimer, è un uomo immancabilmente solo, ora dio distruttore di mondi, ora Cristo martirizzato in croce. È un uomo che come Arjuna ha perso il lusso di vivere nell’incoscienza perché è venuto a contatto col divino, con quelle leggi segrete che regolano un sottobosco della materia invisibile agli occhi. Fin dalla sua giovinezza si è calato in quel mondo, risucchiato dal divino buco nero che ne ha fagocitato ogni attenzione, anche la morale. “I fisici hanno conosciuto il peccato e questa è una conoscenza che non possono perdere“. Oppenheimer è sceso dal paradiso in cui etica e morale sono certe e naturali, attratto da un mondo che ronzava continuamente nella sua testa. Nolan riesce a restituire con grande resa visiva questa realtà insieme interiore e universale che si anima in lui e nel mondo. Il fisico ne è ossessionato, non riesce a dormire, è scosso da tremiti che lo portano costantemente oltre il mondo, in una metafisica subatomica che vede agitarsi potente e immortale nella sua testa e in ciò che lo circonda.

Ha visto il buco nero, ha visto la forma fisica della divinità del tempo, di quella morte che è in realtà Viṣṇu, divinità che tutto consuma, che tutto distrugge e costantemente ricrea.

La divinità è penetrata in lui, ha reso lui stesso suo strumento e suo avatara, sua incarnazione. Compi i tuoi atti ma non occuparti del loro frutto, gli ha sussurrato. E Oppenheimer come Arjuna, pur scosso dallo scoramento, ha deciso di combattere. Là, nel cielo metafisico della fisica teorica non c’è più morale né etica, ma c’è il peccato di chi è uscito dal paradiso attraverso il frutto della conoscenza. Robert Oppenheimer ha mangiato quel frutto, quella mela avvelenata che stava per dare al suo professore. Si è fatto lui stesso Morte, peccatore e nel contempo agnello che toglie i peccati dal mondo attirandoli su di sé.

Il mondo materiale per l’Oppenheimer di Nolan è un contorno, un insieme confuso di amori da cogliere, di amicizie tradite e di politica. Anche per lo spettatore questa realtà è disordinata, frammentata, impossibile da cogliere nella sua pienezza se non nel finale del film. Oppenheimer è andato troppo a fondo, ha visto il vuoto che c’è tra l’aggregazione di atomi e, come un quadro impressionista, avvicinandosi troppo all’immagine ha finito per non distinguerne più le figure. Quelle figure di donne abbandonate, figli trascurati, amici rinnegati Oppenheimer non le mette a fuoco se non a tratti. Nel resto del tempo è lì, vicinissimo alla tela a cercare immancabilmente la relazione che lega un puntino all’altro, un atomo all’altro nella formazione di tutte le immagini. Non è casuale in questo la scelta di Nolan di usare una pellicola in 70mm che restituisce un’immagine più stretta, focalizzata sui dettagli dei primi piani, su una soggettiva che è un vero point of view dello stesso Oppenheimer, della sua visione della realtà (tranne nel bianco e nero che rappresenta la cruda, asettica, noiosa oggettività degli eventi).

Oppnheimer
La pellicola a 70mm permette di esaltare i dettagli (640×360)

E alla fine il protagonista, in questo continuo zoom soggettivo, arriva a vedere il dio, arriva a cogliere Viṣṇu nella sua pienezza, nascosto nelle pieghe di una realtà subatomica che lo ha fagocitato. Quando Oppenheimer mangia il frutto, quando si accorge della sua nudità e dal paradiso di natura scende nel mondo materiale di morte, di fatica e distruzione non può più tornare indietro. È un peccato, una conoscenza che non può più perdere, lui come tutti i fisici che ha condotto con sé, che ha trascinato, come Eva con Adamo, nel peccato, sotto l’albero della conoscenza. Nolan non fa l’errore di rappresentarlo vittima della sua stessa scoperta. Non lo rende protagonista esistenziale di un dramma umano. L’Oppenheimer filmico per larghi tratti è semplicemente troppo incuneato nel mondo subatomico, nello studio esaltante di quel mondo nuovo, per avere dubbi. In lui risuonano le parole della Bhagavadgītā, gli insegnamenti di Kṛṣṇa che gli ripete di occuparsi dei suoi atti, non del loro frutto.

Il peccato è una conoscenza che Robert non può più perdere.

Non si può tornare indietro. Non si può tornare al paradiso terrestre dopo aver mangiato il frutto della conoscenza. E allora Oppenheimer procede sentendosi eroe del dio della Morte, a volte perfino pieno di sé, tronfio protagonista della storia che si dipana tra le sue mani. Robert Oppenheimer si sente uomo della Provvidenza, eroe in missione per una divinità che gli parla al di là del mondo fisico e che gli sussurra che per quanto orribile possa essere non sta a lui giudicare le azioni. L’uomo scelto dal dio muta così i propri atti in sacrifici che in un quadro più generale aiutano a mantenere l’ordine cosmico: se sei un soldato devi fare il soldato. È un tuo dovere legato alle contingenze. Abbandona a Me tutte le azioni!, gli urla quel dio. Non avere come movente il frutto delle tue azioni.

Quel dio di Oppenheimer è la Fisica stessa, la scienza che non può guardare al frutto delle sue azioni: Nobel in fondo non è stato forse l’inventore della dinamite? Anche lui da qualcuno fu chiamato “il mercante di morte”. Viṣṇu per convincere Arjuna muta aspetto assumendo la sua forma divina: allo stesso modo la trasformazione della materia nella fissione nucleare, la rivelazione del vero, mutevole aspetto subatomico, come un moderno Viṣṇu, convince Oppenheimer/Arjuna a perseguire la sua missione. Lo scienziato non può guardare al frutto, non può avere come movente le conseguenze, deve rimettere alla Fisica tutte le azioni. Così Oppenheimer si abbandona al dio e furiosamente insegue e persegue il sogno dell’atomica, chiuso nel mondo subatomico, incapace di vedere o di voler vedere il quadro generale.

Esplosione
Oppenheimer osserva l’esplosione di Trinity (640×360)

Poi, però, c’è la bomba. Nolan sospende quel frenetico avvicendarsi di parole, azioni, contrasti, scelte organizzative. Tutto si sospende di fronte all’esplosione, anche il suono. C’è silenzio, un silenzio profondo, fatto di attesa ansiosa e stupore, di presa di coscienza e di paura. E di colpo la Fisica si trova messa in disparte, Oppenheimer stesso è messo da parte e tutto diventa politica. Un nuovo dio è subentrato, un dio che non si serve più del fisico statunitense ma del presidente, dell’uomo che dà il via libera all’azione di morte che avrebbe concluso la seconda guerra mondiale. Un presidente che si nasconde dietro esigenze politiche, machismo (“Non fatemi più vedere quel piagnucolone“, dice di Oppenheimer) e negazione.

È solo a questo punto che la storia di Oppenheimer cambia.

Fino a questo momento Oppenheimer/Arjuna doveva portare a termine il suo compito. Doveva farlo in ottemperanza al suo ruolo di soldato. Tu hai già commesso violenza. Non imparerai la non violenza parlando ora come un saggio. Essendo già incamminato su questa via, devi portare a termine il tuo compito. Ma ora che il compito è ultimato cosa resta? Cosa avrà fatto Arjuna dopo aver visto la distruzione che ha creato, dopo tanta morte, dopo aver ucciso i suoi fratelli? Il testo indù non ce lo dice. Robert Oppenheimer non ha più la sua Bhagavadgītā a guidarlo, non ha più il suo dio della Fisica. Ancora una volta finisce per trovarsi oltre il mondo della Fisica, in una metafisica che chiede ragione di sé: ogni dovere è caduto e torna la morale e l’etica.

Ed è per questo che tenta la strada della mediazione tra nazioni. Per questo si oppone alla bomba H. Nei momenti appena successivi all’esplosione del Trinity Oppenheimer inizia a sentire lo stridore delle Erinni. Nel film di Nolan questo fondamentale trapasso è reso in maniera magistrale negli applausi e nelle risa dei residenti di Los Alamos che si trasformano in silenzio, smorfie e pianto. Il pianto di gioia e di liberazione diventa pianto di morte e sofferenza, i volti sono scarnificati, anticipando nella visione di Robert le facce dei morti di Hiroshima e Nagasaki. Sapevamo che il mondo non sarebbe stato più lo stesso. Alcuni risero, altri piansero, i più rimasero in silenzio, disse Robert Oppenheimer. È a questo punto che l’uomo è nuovamente chiamato a rispondere delle sue azioni, nel punto in cui la Bhagavadgītā non arriva ma il fisico statunitense è costretto a giungere. E allora allo strumento del dio, all’uomo della Provvidenza, al distruttore di mondi non resta altro che farsi agnello sacrificale.

Oppenheimer
Oppenheimer si presta alle accuse della Commissione (640×360)

Oppenheimer si immola, si presta a una commissione-farsa che lo incalza e lo mette di fronte ai suoi errori, ai suoi cortocircuiti morali, che gli chiede di farsi carico di una colpa che in realtà colpiva come una contaminazione tutta l’America. Robert accetta quelle accuse, si china ad accogliere su di sé quel peso, speranzoso che la condanna sia anche un’espiazione, che la colpa morale che lo attanaglia ora che il dio lo ha abbandonato sia allontanata dai suoi concittadini e si concentri su di sé. In lui non ci sarà mai vero pentimento perché una volta conosciuto il peccato non si può tornare indietro: un soldato è chiamato a fare il soldato in ottemperanza all’ordine cosmico. Ma ciò non toglie che ci sia colpa e peso e sofferenza, come Nolan fa confessare al fisico davanti al presidente degli Stati Uniti.

L’Oppenheimer di Nolan sente in lui l’orgoglio di chi è stato protagonista della storia, di chi è stato scelto da un dio in ottemperanza all’ordine cosmico e per fare delle distruzione il primo passo verso la ricostruzione.

Ma sente anche la responsabilità tutta umana e il dubbio pesante che la distruzione possa essere definitiva. Quel dubbio non lo abbandonerà mai, sarà sempre la possibilità residuale che la bomba con una reazione a catena possa bruciare l’intera atmosfera e annientare il mondo definitivamente. Quella reazione a catena Oppenheimer l’ha prodotta, come mostra Lynch che di quell’atomica, nel meraviglioso ottavo episodio di Twin Peaks: The Return, ne fa l’atto originario della nascita del Male. La scena meno Twin Peaks di Twin Peaks. È l’origine del peccato, il punto di non ritorno, la causa che cambia per sempre il mondo. E l’Oppenheimer di Nolan come il vero Robert Oppenheimer con fierezza e dolore lo sa fin troppo bene.