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Foundation – La Recensione: il tramonto dell’umanità secondo Asimov

La violenza è l’ultimo rifugio degli incapaci

Quali sacrifici si è disposti a compiere per la salvezza collettiva? Su questa domanda secolare si fonda Foundation, nuova serie tv prodotta da David S. Goyer per Apple Tv e basata sull’omonimo ciclo di romanzi di Isaac Asimov. Nel 1951 veniva pubblicato il primo volume di una saga, se così la si vuol chiamare, destinata a fare letteralmente la storia della fantascienza. Una saga diversa dal solito, che non prevedeva alieni, guerre spaziali o altri topoi del genere ma il cui intento era rappresentare la natura e l’etica umana sotto una luce diversa ma non per questo meno conosciuta. Il Ciclo della Fondazione era una gigantesca messa per iscritto dell’annoso dilemma del carrello ferroviario: da un lato l’Impero e la sopravvivenza dell’universo conosciuto, dall’altro le singole vite dei suoi protagonisti.

Prima di addentrarci nella recensione vorrei dedicare le parole che seguono a mio padre, che mi ha indicato le stelle una ad una e mi ha portato in mille galassie.

Foundation

L’adattamento di un’opera così immensa come Foundation non era affatto un’impresa semplice, sia per il vasto quantitativo di materiale sia per le aspettative inevitabili e pericolose.

Anno 12067 dell’Era Imperiale. La Galassia vive uno stato di apparente serenità e pace, guidata dalla volontà ferrea della trinità imperiale: Borther Dawn, Brother Day e Brother Dusk. Essi non sono altro che cloni, ultimi di una lunga discendenza che fa capo a Cleon I, il primo imperatore. Gaal Dornick, ragazzina prodigio che ha vinto una gara di matematica viene invitata su Trantor, capitale dell’Impero, per diventare apprendista del noto matematico Hari Seldon. Lo studioso ha sviluppato quella che lui stesso chiama psicostoria, una nuova scienza in grado di prevedere eventi storici futuri su larga scala. Per mezzo della psicostoria, Seldon arriva alla conclusione che l’Impero è destinato alla rovina e che, in seguito a questo crollo, seguirà un periodo lunghissimo di barbarie e oscurità. Inizialmente, le parole di Seldon vengono additate come i deliri di un anarchico, pericoloso per la salvaguardia dell’impero. Ma la diplomazia riesce a compiere il miracolo. Seldon convince l’imperatore a spedirlo su Terminus, un pianeta lontano e inospitale, dove verrà costruita la Fondazione, il cui compito è rallentare il più possibile il declino dell’Impero stesso. Con questo obiettivo inizia il viaggio di Sedon, di Gaal e di un nutrito gruppo di scienziati ma anche il nostro viaggio all’interno di una galassia complessa e infinita.

ATTENZIONE! La recensione che segue potrebbe contenere SPOILER della serie tv. Siete invitati gentilmente a tornare a visione avvenuta, per la vostra salute mentale.

La serie tv si presenta fin da subito con una grande ambizione. Durante un’intervista tenutasi lo scorso gennaio, David S. Goyer ha annunciato l’intenzione di voler sviluppare un totale complessivo di ottanta ore (stiamo parlando quindi di otto stagioni). La notizia del rinnovo fa ben sperare e, d’altronde, le premesse per creare qualcosa di unico e grandioso ci sono tutte. Foundation prende liberamente spunto dal primo romanzo del Ciclo, discostandosi dalla trama originale ma senza mai farlo in maniera illogica o spregiudicata. I cambiamenti all’interno della serie tv risultano sempre finalizzati a uno scopo narrativo più alto e coeso, tale da rendere Foundation un prodotto speciale nel panorma delle serie tv sci-fi (qui le migliori del 2020). D’altronde, la necessità di adattare una storia di fantascienza dagli anni Cinquanta a oggi appare più che lecito, l’importante è farlo sempre con rispetto nei confronti del materiale iniziale. E Foundation lo fa. Nonostante diverse scrollate di spalle da parte dei puristi, una larga fetta di fan di Asimov ha apprezzato i cambiamenti apportati all’interno della serie: il cambio di genere per i personaggi di Gaal e Salvor Hardin; l’introduzione dei cloni; il makeover del personaggio di Demerzel.

Cambiamenti evidenti che passano però in secondo piano di fronte alla magnificenza di uno show che vibra di pura fantascienza.

In ogni singolo fotogramma di Foundation è evidente una cura maniacale. L’attenzione per il dettaglio, per una caratterizzazione che sia unica non solo per ogni ambiente ma per ogni singolo scenario che vediamo nell’arco dei dieci episodi. E ce ne sono parecchi. Passiamo dal mare sconfinato di Synnax alla metropoli cyperpunk di Tantris, dal deserto di Terminus alla landa della luna vergine. Ogni luogo racconta una storia e lo fa attraverso immagini che rimangono impresse nelle retine dei nostro occhi come se avessimo guardato il Sole a occhio nudo. Attraverso queste immagini pulsanti, Foundation racconta del declino dell’umanità, di quei momenti in cui il destino degli uomini si traccia passo dopo passo, azione dopo azione. Tre storie parallele vengono portate avanti nel corso della stagione, separate tra loro ma unite da quel filo conduttore che è la “profezia” di Hari Seldon (Jared Harris).

Foundation

Ogni protagonista di Foundation sente il peso delle parole dello scienziato come una spada di Damocle sulla propria testa. Salvor Hardin (Leah Harvey), Gaal Dornick (Lou Llobell), Raych Seldon (Alfred Enoch), Brother Day (Lee Pace) sono tutte pedine inconsapevoli del gioco studiato a tavolino dal matematico .

Tutti oscillano continuamente tra libero arbitrio e la parte che è stata loro assegnata. Tutti si divincolano all’interno della rete che Seldon ha gettato molto tempo prima. Ecco, allora, Gaal rifiutare il proprio destino mentre Hardin lo abbraccia completamente, ponendo così fine alla Prima Crisi. Lo stesso Asimov lamentava l’assenza di pathos ed empatia all’interno della sua opera. In Foundation sono, invece, proprio i rapporti umani ad acquisire significato. Quelle relazioni emotive che Seldon non poteva predire e tenere dunque da conto nel suo progetto a lungo termine, pur se compiute dai tasselli stessi del suo piano. I protagonisti di Foundation sono ben costruiti e motivati, ognuno di loro segue un percorso dal finale ignoto spinto da ragioni o del cuore o della ragione. E questa dualità costante è resa visibile nello show dall’utilizzo di determinate palette di colori, a seconda che si stia parlando della Fondazione o dell’Impero.

Il mondo di Terminus è caldo, secco ma pieno di passione e sentimento. Hardin è mossa dal desiderio costante di proteggere la propria comunità e coloro a cui vuole bene. Il suo è un cammino di evoluzione emotiva, di conoscenza di sé, delle sue origini e, infine, di accettazione del proprio ruolo all’interno della storia. Al contrario, il pianeta città di Tantris è un luogo senza vita, in cui le persone rappresentano gli ingranaggi di una macchina senza anima devota all’Imperatore.

Foundation

Non vedere niente. Non augurerei quel vuoto a nessuno

Le sale austere del palazzo rappresentano il gelo nel cuore dell’Imperatore, un’assenza di affetti e rapporti tale da farlo vivere in un buio metaforico e perenne. Persino un robot quale Demerzel è capace di provare emozioni come tristezza e rabbia ma costretta anch’ella a sopperire a una legge superiore per la salvaguardia dell’impero. Non c’è spazio per l’empatia, vista come un errore e come tale trattata. E ciò che avviene a Brother Dawn, condannato ben prima di nascere perché diverso rispetto a una dinastia di fratelli-padri impeccabili e perfetti. Fino a quando, in uno dei migliori colpi di scena del finale, quella stessa perfezione dietro la quale gli imperatori si erano barricati finisce per crollare definitivamente. Non esistono più cloni, il libero arbitrio è a portata di mano e con esso anche le implicazioni dell’avere un’anima. Brother Day ne ha avuto un assaggio su luna vergine, messo di fronte a quella fede che non si può comprare in alcun modo.

Il rosso, così vivido nel mondo di Gaal (che devo ammettere rimane la storyline più debole dello show) e in quello di Hardin, rappresenta per l’impero il simbolo dell’errore e del diverso, attraverso il daltonismo di Brother Dawn. Lui che potrebbe davvero personificare il cambiamento necessario, il “piegarsi” di fronte alla storia ineluttabile, viene invece eliminato e dimenticato. Non da tutti, però. Infatti, in quella grotta dove non ha avuto alcuna visione, Brother Day ha però sentito l’eco di una certa profezia pronunciata quando lui era solo un bambino. Lee Pace ci fa dono di un personaggio straordinario, profondo e sfaccettato che in quella rete si divincola più di altri. Non c’è dubbio che la storyline più riuscita sia proprio quella che lo vede protagonista, con un’interpretazione che, non mi spavento a dirlo, è da candidatura agli Emmy.

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