Curon recensione e commento con spoiler
Mi perdonerete un’apertura personale a questa recensione. Tanti anni fa, da bambino, rientravo con mio padre da una gita alle sorgenti dell’Adige presso Passo Resia nell’alta Val Venosta. Tralasciando il fatto che la vera sorgente dell’Adige fosse all’interno di un bunker dello “Sbarramento Passo Resia” della Grande Guerra e vedremo poi quanto questo elemento non sia secondario nella narrazione, sulla strada del rientro costeggiammo un lago. Il lago di Resia. Quello che non avevo notato nel sonno del viaggio d’andata mi colpì con una forza enorme in quel momento. Un campanile svettava tra le acque blu con sfumature smeraldo non troppo distante dalla riva. Un’immagine potente nella luce del sole che volgeva all’occaso tra i verdi declivi colmi di pini e abeti. Così scoprì la storia di Curon Venosta, il paese sommerso.
Nel 1950 venne completata la diga che unì due dei tre laghi del Passo Resia e formò un bacino artificiale dedicato alla produzione elettrica. Per fare ciò il paese di Curon venne coattamente fatto abbandonare, distrutto e ricostruito più a monte. Solo il campanile del ‘300 rimase come monito e vestigia.
Tutto questo per darvi l’idea di quanto affascinato fossi al momento di iniziare la visione dell’ultima produzione nostrana originale Netflix: Curon, appunto.
Quest’emozione unita al desiderio finalmente di poter vedere alcuni dei luoghi magici del nostro Belpaese divenire scenario di una storia dal respiro internazionale ed esportata in tutto il mondo ha caricato la visione di aspettative e attenzione forse superiore a quella che sarebbe stato se fosse stata una produzione estera. Forse.
Curon racconta la storia di Anna, una madre che torna al suo paese natale, dopo 17 anni passati a Milano, coi figli gemelli Daria e Mauro a causa di un litigio con il marito Pietro. A Curon i tre si stabiliscono non senza qualche difficoltà presso l’hotel di Thomas, padre di Anna. Fin da subito però iniziano a succedere cose strane legate sia ai tre protagonisti iniziali che agli abitanti del paese che man mano scopriamo. Il tutto infarcito da una leggenda locale legata al lago, ma forse anche molto più antica.
Dopo la scomparsa della madre, Daria e Mauro, iniziano una ricerca disperata ostacolata in vario modo sia dallo stesso nonno che dagli altri paesani. Questo li porta presto a indagare sugli strani eventi soprannaturali che stanno influenzando molti personaggi di Curon oltre che sul passato della loro famiglia.
Il tema portante Curon ci viene dichiarato fin dall’inizio in modo non troppo raffinato e anche un po’ didascalico da parte di uno dei personaggi principali della serie, Klara. Insegnate nella scuola frequentata dai due ragazzi, madre di Micki e Giulio, che stringeranno un tumultuoso rapporto con i due gemelli e moglie di Albert. Personaggio ambiguo e problematico accusato poi della scomparsa della stessa Anna in quanto suo ex fidanzato d’infanzia.
La serie inizia in medias res con le immagini di una giovane Anna all’interno dell’hotel di famiglia dove assiste all’omicidio della madre da parte di se stessa. Sogno, realtà o illusione?
L’inizio per quanto volutamente confuso è intrigante. Soprattutto se teniamo bene a mente che è una produzione italiana. Ma come detto la soluzione di quanto visto, prima che venga sviluppata dalla trama, ci viene spiattellata da Klara durante una lezione ai ragazzi: “Dentro di noi vivono due lupi. Uno è il lupo calmo, gentile. L’altro è il lupo oscuro, rabbioso, spietato“.
Ecco che l’effetto sorpresa del concetto del Doppelgänger, la parte cattiva racchiusa in ognuno di noi, viene spiattellata al pubblico togliendo di fatto ogni speculazione da parte dello spettatore. Questo, anche se non l’unico, è il limite più grande di questa produzione: non chiede nulla al suo pubblico. Non c’è alcuno “sforzo” nel vedere questa serie. Tutto è messo chiaramente davanti ai nostri occhi. Questa è la caratteristica principale della maggior parte delle produzioni italiane. Come non ci fosse ancora, dopo decenni di fruizioni di serie tv di alto livello, fiducia nella capacità di comprensione del pubblico. Tutto deve essere chiaro, semplice e immediato. Deve essere fugato ogni dubbio, ogni complessità. Peccato.
Prima di soffermarsi su cosa non abbia funzionato appieno in Curon alcune note di merito. Innanzitutto la fotografia. Intesa non solo come la costruzione delle immagini ma soprattutto con la scelta delle cromie. Domina il blu, in toni accesi. Questo dona alle immagini e all’ottima scenografia curata da Alessandro Vannucci un’atmosfera particolare che richiama i colori del lago, delle sue acque. Che ovviamente è l’elemento predominante e centrale di Curon e della sua leggenda.
Interessante è anche lo sviluppo del rapporto genitori-figli. Viene presentato in situazioni familiari macroscopicamente diverse permettendo così un’indagine più approfondita. Thomas e Anna, Anna e i gemelli, Lukas e il padre Matteo fino ai fratelli Asper con i due genitori Albert e Klara.
Tutte situazioni diverse e molto attuali: genitori single, separati o separati in casa. Come nella realtà non esiste a Curon una famiglia perfetta. Ognuno ha dei segreti da nascondere e ognuno vuole a suo modo preservare i propri figli dal caderci dentro.
Il finale che annuncia le potenzialità per una nuova stagione, Netflix permettendo, è ben fatto. Forse il punto più alto di tutta la serie. Non pecca di banalità e chiude l’intreccio narrativo legato ad Anna in modo efficacie e inaspettato riuscendo comunque, come detto, a tenere aperte le porte per un futuro rintocco delle campane di Curon. Quindi tutto bene in questa serie? Purtroppo no.
Ci sono anche dei limiti. Dei grossi limiti. Molti elementi hanno la funzione di richiamano il luogo in cui è ambientata e se nel caso della fotografia questo funziona, nei dialoghi invece il risultato è spesso deludente. Sia da un punto di vista sonoro, come l’uso del tedesco per enfatizzare la cultura locale influenzata dalla vicinanza con l’Austria, che ha visto la produzione scegliere di utilizzare attori italiani che sapessero parlare il tedesco. Ma il risultato è che tutti hanno un accento diverso generando una cacofonia difficile da seguire. Che dal punto di vista del contenuto dei dialoghi, troppo spesso didascalici, un po’ banali e talvolta persino grotteschi. Ne soffre così anche la recitazione che in molte occasione ne risulta essere quasi svogliata. Con alcune importanti eccezioni, su tutte l’ottimo lavoro svolto da Luca Castellano nel portare sullo schermo un meraviglioso Lukas tormentato e diabolico. Ma anche Margherita Morchio (Daria Raina) e Juju Di Domenico (Micki Asper) fanno davvero un lavoro egregio.
In Curon poi è evidente l’influenza di Dark, la serie supernatural tedesca realizzata sempre da Netflix. Entrambe sono ambientate in un piccolo paese di provincia tra boschi e forti elementi naturali. Ed entrambe ruotano le vicende attorno a personaggi adolescenti e adulti.
Vi sono anche alcune scelte che sembrano quasi citazioni della serie tedesca: la scena in cui Thomas va a cercare Anna in una grotta ricorda anche nella costruzione dell’immagine l’ingresso alla grotta di Dark oppure il personaggio di Klara, che ricorda molto la Katharina di Dark.
La stessa Anna Ferzetti, che interpreta la tormentata Klara, ha ammesso di essersi ispirata ai personaggi femminili della serie tedesca. Dark però è un prodotto molto più complesso e maturo e di conseguenza anche più solido rispetto a Curon.
È interessante infine come nel mezzo del clima paranormale e thriller trovino spazio elementi del quotidiano della vita soprattutto adolescenziale: la scoperta della propria identità sessuale, la droga, i primi amori, la solitudine. Se da un lato questi aspetti hanno la funzione di smorzare la tensione narrativa alleggerendo il peso di ciò che accade, dall’altro rendono il prodotto complessivo un po’ troppo un “teen drama” all’italiana. Ma qui, probabilmente, è più questione di gusti. Purtroppo però per avvicinare questo tipo di pubblico si è percorsa una strada di accompagnamento musicale davvero in distonia con la narrazione. La colonna sonora è in alcuni punti totalmente scollegata dalla scena da diventare disturbante.
Tirare le somme di Curon è difficile. Se la si vede come una produzione italiana nel nostro panorama ha decisamente la sufficienza abbondante. Anche solo per i temi trattati e per la scelta di non presentare un personaggio “eroe”. Ma anzi una pletora di figura fragili e limitate che trovano nell’accettazione di se stesse e nel rapporto con gli altri la propria forza. Se però la caliamo nell’ambizione di una serie internazionale i limiti e le scelte fatte la portano a una perdita di identità e di personalità che la relega a prodotto destinato a scomparire presto nel dimenticatoio. Forse la cosa migliore e concederle una seconda chance. Nel senso di una seconda stagione che possa dare l’opportunità di correggere, e di molto, il tiro ma consolidando quanto di buono visto finora. D’altra parte, le immagini della magnificenza delle Alpi targate Italia, è stata più che sufficiente a mozzarci il fiato.