Vai al contenuto
Serie TV - Hall of Series » RECENSIONI » Black Mirror: USS Callister (4×01) analizza la solitudine spaziale dell’uomo

Black Mirror: USS Callister (4×01) analizza la solitudine spaziale dell’uomo

Noi vogliamo allargare la terra alle sue dimensioni. Non abbiamo bisogno di altri mondi: abbiamo bisogno di uno specchio. Ci affanniamo per ottenere un contatto e non lo troveranno mai. Ci troviamo nella sciocca posizione di chi anela una meta di cui ha paura e di cui non ha bisogno. L’uomo ha bisogno solo dell’uomo!
Dr. Snaut, Solaris (1972)

Black Mirror torna con la quarta stagione. Torna e tenta di riappropriarsi del proprio credo. Di ridare profondità al racconto con l’accorta critica sottesa alla narrazione. USS Callister è un episodio di assai complessa valutazione da analizzare con accuratezza e tatto. “È l’uomo a rendere immorale la scienza, ricordi Hiroshima”. Queste parole, pronunciate dal protagonista, Kris Kelvin, del capolavoro filmico Solaris riecheggiano nella mente di Brooker. Lo tormentano, lo guidano, lo spingono a mettere sulla scena le nevrosi della sua mente. Le angosce irrisolte dell’uomo. Robert Daly è un po’ Charlie Brooker ma in fondo è un po’ tutti noi.

“Sociopatico alienante” lo definirebbe il Manuale Statistico Diagnostico dei Disturbi Mentali. È incapace di rapportarsi agli altri, di socializzare, di affermarsi e farsi valere. Per tutti è un fantasma, un individuo irrilevante nel microcosmo dell’azienda di cui, pure, è direttore artistico. È la mente dietro Infinity, il vero ideatore, il geniale programmatore del gioco. Eppure, è snobbato e relegata in uno studio che viene scambiato per il bagno (“Forse stava cercando il bagno, il cartello è fuorviante: è dall’altra parte”).

La sua misantropia è una conseguenza dell’impossibilità di ottenere dagli altri il rispetto e il consenso.

Alienato dal mondo Robert Daly si è costruito un suo universo, una realtà di cui è padrone dispotico. In questo contesto tutti sono ai suoi ordini e si prostrano falsamente ai suoi piedi. È aitante (notare i capelli) e sicuro di sé. La sequenza in cui possiamo osservare la sua abitazione ci offre una panoramica degli oggetti che la affastellano. Si tratta di feticci, di modellini da collezionismo che costituiscono valvola di sfogo alle sue represse e inespresse pulsioni emotive. La mancanza di rapporti personali nel sociopatico viene compensata infatti dalla compulsione all’accumulo (ordinato) di oggetti che costituiscono dei surrogati dell’intimità.Black Mirror

L’ingresso nell’azienda di Nanette che lo venera come un dio sembrerebbe poter cambiare le cose, restituire all’uomo quell’apprezzamento di cui tanto necessita. Ma la ragazza viene catechizzata, portata a diffidare del misantropo Daly. Nanette diventa come gli “altri”, parte della massa indistinta di persone che interagiscono appena con Robert. Diventa l’ennesima “colpevole” del suo isolamento. E come tale oggetto e strumento della sua rivalsa virtuale.

Nel finale di Bianco Natale l’esclusione sociale procedeva per tramite dello Z-Eye, un dispositivo di realtà aumentata che permetteva di “bloccare” visivamente una persona. Ora invece Robert è invisibile agli occhi del prossimo a causa della sua stessa inettitudine alle relazioni. Strizzando l’occhio al passato (lo farà spessissimo Brooker in questa stagione) il geniale creatore di Black Mirror ci ricorda che il colpevole non è la tecnologia ma l’uomo. Il mezzo tecnologico diventa solo un tramite per accentuare le brutture dell’uomo, le contraddizioni della sua natura, l’ipocrisia e l’opportunismo che sembrano sempre più regolare i rapporti umani. “È l’uomo a rendere immorale la scienza, ricordi Hiroshima”, ci ripete (e ripete a se stesso) Charlie Brooker.

Così anche l’elemento sci-fi diventa un riempitivo.

Nella passata stagione ogni episodio aveva ricevuto un taglio particolare. Si era rifatto a un genere preciso (Survival Horror in Giochi pericolosi, Kitchen-Sink Thriller in Zitto e balla, Gialli scandinavi per Odio universale e film anni ’80 con San Junipero). Ora in USS Callister si adotta lo stesso schema. Si rende godibile l’episodio al vasto pubblico usando come espediente l’impostazione sci-fi.

Rispetto ai precedenti però qui l’attenzione al modello risulta parodica e critica. Lo spazio, terra di conquista, espressione della forza tecnologica dell’uomo diventa parvenza. Diventa specchio per le allodole. Si tramuta in una realtà virtuale che isola e allontana l’uomo dall’uomo. Lo spazio infinito è il luogo del vuoto esistenziale, della convenzionalità dei rapporti, della finzione delle relazioni. Il codice morale che guida l’equipaggio della Callister è un’ipocrisia sociale, un paravento che nasconde le perversioni del suo capitano, il suo dispotismo. Lo spazio interstellare diventa un prodotto a uso e consumo del giocatore, una realtà in cui autoaffermarsi.

I riferimenti sono ovviamente tutti (o quasi) a Star Trek (a cominciare dal nome della nave stellare) e al genere televisivo che prese largo dopo quel fortunato esordio seriale.

Tornano in scena tutti gli elementi canonici del genere fantascientifico: dal codice morale, all’eterna lotta tra la vita e la morte, fino ad arrivare alla ripetitività delle situazioni (passaggio in una fascia di asteoridi).Black Mirror

Come detto, però, l’ironia e la critica si insinuano in ogni dove. Nel ripetersi delle canoniche frasi (“Dovresti dire qualcosa come ‘avvia l’astronave, ‘accendi il motore’”; “Parti e basta”); nella presenza degli abiti succinti; nell’assenza di armi nelle mani della componente femminile dell’equipaggio; nel perbenismo moralistico (assenza di genitali). Così la frase pronunciata da Elena (“Auguro a tutti noi di morire”) ribalta il senso della narrazione canonica. Là l’equipaggio rischiava la vita per salvarsi qui per darsi la morte.

L’episodio restituisce a Black Mirror la vena angosciante che aveva dominato la prima sorprendente stagione.

Ritorna il tema della coscienza espiantata già presente in Bianco Natale e in San Junipero. Il che, a ben vedere, rende il tutto un po’ ridondante. La riflessione che la puntata vorrebbe indurre nello spettatore è in effetti già stata proposta. Anzi, in Bianco Natale la strutturazione del tema aveva reso il tutto molto più urtante. In quel caso infatti la scelta di presentare il “doppio virtuale” in forte associazione con il suo corrispettivo umano rendeva la narrazione fortemente straniante. Si trattava di un vero e proprio intervento chirurgico e scenograficamente potevamo assistere con crudezza all’asportazione di una “parte” dell’individuo da sé.

Anche in San Junipero il parallelismo tra le entità pienamente virtuali e quelle umane “loggate” annullava la distanza tra reale e fittizio. Ora invece tra gli umani e i loro corrispettivi nel gioco non c’è più associazione. Lo stesso metodo di riproduzione digitale (semplice DNA) rende meno potente visivamente il legame.

Il finale però riacquista pienezza disturbante.

Non si tratta infatti come nei due precedenti di un’emanazione tecnologica dell’uomo a rimanere intrappolata nel gioco ma di Robert Daly stesso. Il protagonista è così destinato a vagare in quell’universo ormai vuoto, nel buio cosmico del nulla assoluto. Il suo vuoto emotivo si esemplifica allora nell’immagine finale dell’uomo che vede annullare se stesso proprio in quella realtà virtuale in cui si era rifugiato, in cui aveva tentato di autoaffermarsi e nobilitarsi (masturbatoriamente).Black Mirror

La conclusione, che rappresenta quasi una post-credits scene, ha anche il tempo di soffermarsi brevemente sulle contraddizioni di una realtà virtuale che diventa teatro di espressione delle pulsioni più bestiali (“Hai qualcosa da darmi?”) e degli istinti di affermazione prepotente (“Sono il re dello spazio”).

La voce fuori campo ripete per un’ultima, sconsolata volta: “Sono il re dello spazio”. E ci tornano in mente di nuovo le parole presenti in Solaris: “Non abbiamo bisogno di altri mondi: abbiamo bisogno di uno specchio”. Black Mirror torna a metterci di fronte allo specchio incrinato in cui il nostro riflesso è distorto. In cui l’uomo vede la perversa, sfaccettata e rifratta immagine di se stesso e si scopre debole. Lo fa però con una certa ridondanza che sa di già visto. C’è altro su cui farci riflettere. Si può far di più. Ce lo aspettiamo da Black Mirror.

Post-credits script: voi amanti della lingua originale avete riconosciuto di chi è la voce fuori campo al termine dell’episodio?

Naturalmente di Aaron Paul, l’amatissimo attore reso famoso dal ruolo di Jesse Pinkman in Breking Bad. D’altronde questo episodio ci regala un cast d’eccezione: da David Cross nel ruolo di Valdak (Umbreakable Kimmy Schmidt), a Cristin Milioti (How I Met Your Mother), Jesse Plemons (Breaking Bad) e Jimmi Simpson (Westworld). Brevissima apparizione anche per Kirsten Dunst (minuto 9:55, la ragazza con le braccia incrociate).

LEGGI ANCHE – Black Mirror: perché si è snaturato dopo il passaggio a Netflix