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“E pluribus unum”. “Da molti, uno”. La locuzione latina, derivata dal Moretum attribuito a Virgilio, campeggia nel primo stemma degli Stati Uniti d’America. Un motto imprescindibile. Il manifesto programmatico di un’intera nazione, fondata sull’idea di unire popoli provenienti da mondi distanti sotto una sola bandiera in cui riconoscere frammenti di sé, costituendo una nuova identità. Una sintesi della pluralità che mette al centro del suo universo le unicità, le peculiarità. Un’idea estrema di integrazione che non disconosce le differenze ma ne fa un elemento imprescindibile. È parte del Dna americano, nonché dell’uomo in sé e per sé: l’evoluzione nasce da questo presupposto, fin dall’alba dei tempi.
In fondo, quell’antico motto non parla solo dell’America. È la formula di ogni forma di progresso umano: la capacità di tenere insieme differenze che non si annullano ma si fecondano a vicenda. Quando dimentichiamo questo, la pluralità si trasforma da motore a minaccia.
Da molti, uno, allora: un valore, con un pericoloso rovescio della medaglia. “E pluribus unum”, oggi, rischia di assumere un senso completamente diverso.
L’unità, d’altronde, è sempre più connessa al concetto di omologazione, ancor più se calata dall’alto da soggetti che rifuggono la varietà e si aggrappano a un’artificiosa identità che sconfinerebbe addirittura in una volontà divina.
Insomma, stiamo parlando di un tema a dir poco urgente. E quando un tema è urgente, l’arte è sempre un supporto imprescindibile per codificare i tempi che corrono, mettere un accento e, perché no, un argine. L’arte si fa delle domande e porta il pubblico a farsele a sua volta: non necessariamente per individuare delle risposte universali, ma per trovare la propria visione del mondo attraverso il confronto. “E pluribus unum”, quindi: un caleidoscopio di colori genera nuove sintesi e nuove chiavi espressive preziose per affrontare le storture della nostra contemporaneità. Tutto ciò, a patto che l’arte possa davvero scorrere libera e andare in una direzione sinceramente autentica. Prescindendo così dai dettami algoritmici che stanno appiattendo tutto sui soliti toni. Verso le solite storie dalle solite, ferree, logiche commerciali.
È il paradosso della nostra epoca: l’algoritmo promette varietà ma produce serialità. Cambiano i volti, ma le storie tendono spesso a ripetersi. Il risultato è un grande coro accordato, dove la voce solista diventa sempre più rara.
Non dobbiamo dilungarci oltre in tal senso: è sotto gli occhi di tutti la pulsione all’omologazione che domina questo periodo storico in ogni ambito artistico-creativo.

Dal cinema alla musica, passando per l’editoria e la televisione. Già, la televisione. La televisione dei grandi franchise e dei prodotti senza anima che troppo spesso ci ritroviamo di fronte. Assecondano la nostalgia con insistenti sguardi rivolti ai bei tempi passati, arrivando a distorcerne pretestuosamente la percezione. Ne abbiamo parlato a più riprese, anche di recente, e ancora lo faremo in futuro: sarebbe un errore valutarne solo i rischi e non aprire le porte alle opportunità che creano. I franchise non sono mai un problema, e spesso hanno dato vita a opere di grande caratura. Potremmo citare in tal senso Andor o la stessa Better Call Saul, in ambiti molto diversi: l’elenco sarebbe straordinariamente lungo e non merita alcuna generalizzazione. Il franchise può quindi diventare un vettore per l’autorialità, e non dovremmo dimenticarlo mai.
Ciò detto, è evidente però che il trend globale sia piuttosto frustrante per la nostra generazione, cullata nei fasti di una golden age ormai tramontata da almeno un decennio. Non si tratta solo di gusti o di mode, ma di un linguaggio collettivo che si restringe. Anche l’immaginazione si standardizza: si scrive per anticipare la reazione del pubblico, non per sorprenderlo. È qui che l’arte smette di guidare e comincia a inseguire.
Al di là di ogni possibile considerazione a riguardo, il ritorno di Vince Gilligan è una boccata d’aria fresca in tal senso.
Prossimo al ritorno in tv con Pluribus, in arrivo su Apple TV il prossimo 7 novembre, attendiamo la sua nuova venuta come se fosse quella di un messia. Gilligan ha ideato e sviluppato una delle migliori serie tv di tutti i tempi, Breaking Bad: il manifesto della prestige tv insieme al suo “padre spirituale”, I Soprano, nonché la massima espressione dell’idea che il piccolo schermo possa essere davvero grande. Un prezioso mezzo artistico che veicola l’unicità dell’artista in un sentimento universale al quale si connette il pubblico di massa nei modi più disparati, su livelli d’approccio profondamente diversi. È per molti versi la letteratura del nostro tempo: ricopre, di conseguenza, una funzione sociale imprescindibile in cui il ruolo dell’artista può ancora esprimersi più o meno liberamente.
Il nostro, in fondo, è allora un atto di fede nei confronti di un autore eccezionale e straordinario per il quale l’urgenza artistica va oltre ogni possibile esigenza derivativa.
Giusto poche ore fa, per esempio, abbiamo pubblicato alcune sue dichiarazioni legate al possibile ritorno di Breaking Bad: seppure Gilligan abbia dichiarato di averci pensato e abbia ammesso che non mancherebbero le opportunità per farlo senza ricorrere a stucchevoli forzature, il no è un segno della sua cifra espressiva. Riportiamo un piccolo estratto per rendere l’idea: “Per quanto io abbia amato Walter White e per quanto io sia fiero di Breaking Bad (sapendo benissimo che sarà la prima cosa che verrà nominata nel mio necrologio), a un certo punto ti senti tipo: ‘Oddio, sarebbe bello scrivere di nuovo un eroe, qualcuno che provi a fare la cosa giusta’“.
L’urgenza artistica, si diceva: Gilligan avrebbe potuto riprendere i fili di Breaking Bad con uno spin-off solido, senza assecondare le esigenze di un mercato che avrebbe chiamato a gran voce, per esempio, un prequel incentrato su Gus Fring. E lo ripetiamo: sarebbe stata un’idea solida almeno quanto si è rivelata brillante l’operazione Better Call Saul, uno spin-off che è riuscito nell’impresa di affiancarsi alla serie madre con una veste non subalterna.
L’elogio di Gilligan, quindi non nasce da una valutazione in merito a cosa avrebbe potuto fare ancora all’interno del mondo di Breaking Bad: avrebbe potuto fare grandi cose, addirittura enormi se non immortali. E magari un giorno le farà, chissà.
Ma apprezziamo il suo no attuale. Una scelta anticonvenzionale, oggi. Così come lo è il rispetto che l’artista riserva al suo pubblico: “Non voglio deludere nessuno, ma preferirei deludere la gente non dandogli più Breaking Bad invece di sentir dire: ‘Ok, amico, era un pasto completo davvero ottimo, ma l’ultima porzione nella ciotola del dessert era una schifezza. Ora ho un cattivo sapore in bocca, e questo è tutto ciò che ricordo’. Quindi non voglio farlo. Davvero non voglio farlo”.
Non dovremmo sorprenderci: Vince Gilligan mise fine alla straordinaria esperienza di Breaking Bad all’apice, nel suo momento migliore. Quando era ormai diventata un successo mondiale e tutti avevano capito di esser di fronte a un’opera di cui si sarebbe parlato per decenni o forse più. Sì, un “capolavoro” televisivo. Un capolavoro artistico. E l’artista sa sacrificare talvolta l’opportunità commerciale, se ritiene di aver espresso tutto quello che voleva esprimere. Se si è guadagnato la libertà di poter dire di no, al di là dell’offerta. Una scelta idealista: non tutto è in vendita, anche quando il valore di mercato è altissimo. Breaking Bad è finita dopo cinque stagioni: in gran parte degli scenari alternativi, sarebbe durata diversi anni in più. E a un certo punto avrebbero rischiato di diventare troppi.
Il suo “no” vale più di qualsiasi rinnovo. È un rifiuto che diventa la chiave di una sensibilità creativa: non tutto ciò che funziona va ripetuto, non tutto ciò che piace va moltiplicato. In un’industria che santifica la serialità infinita, il gesto di chiudere al momento giusto è un atto sovversivo. Il pubblico dimentica quanto coraggio serva a non tradire un’opera. Ogni volta che un autore dice “basta”, apre la porta a qualcosa che non esisteva ancora.
Dove si va da qui, allora? Magari un giorno Breaking Bad tornerà davvero: non sappiamo come, ma sappiamo che tornerà solo se Gilligan avrà ancora qualcosa da raccontare… sul serio. Si va, quindi, verso Pluribus.
Una serie tv che accogliamo con gioia a prescindere. Senza manco preoccuparci di scoprire prima se possa essere davvero valida.

Non è un caso che arriviamo solo ora a parlare di essa, dopo oltre mille parole. Qualcuno di voi potrebbe considerare tutto quello che ha letto finora un’infinita divagazione, mentre molti altri avranno già mollato da tempo la lettura: la scelta, però, nasce dall’idea che l’hype generato dalla serie riguardi in tutto e per tutto lo stesso Gilligan, ancora prima che la serie in sé.
Nel momento in cui vi scriviamo, Pluribus non ha bisogno di molte altre presentazioni. Ma riportiamo la sinossi per chi ne sta sentendo parlare per la prima volta: “La persona più infelice della Terra deve salvare il mondo dalla felicità”. La protagonista è Carol, una scrittrice di romanzi storici che scopre di essere l’unica persona immune a un misterioso virus globale: il virus della felicità, per l’appunto. È ambientata ad Albuquerque, ma non avrà legami diretti con Breaking Bad. Gilligan ha presentato così Pluribus: “Il lato drammatico della serie è che la persona più infelice del mondo cerca disperatamente di salvare il pianeta dalla felicità. Ne ricaviamo una grande drammaticità. Non vorrebbe davvero essere incaricata di salvare il mondo, ma più o meno sente che è suo dovere“.
Una premessa suggestiva, senz’altro.
Ricorre, quindi, l’espressione “e pluribus unum”: come si diceva in apertura, quello che sembra essere un virus “benigno” è in realtà un veleno che rischia di assoggettarci all’omologazione. Un virus che distrugge le diversità e ci impone un sentimento fittizio: una manipolazione collettiva che potrebbe avere le origini più diverse. Quello che conta ora, però, è concentrarci su come si possa riflettere sulle cronache contemporanee.
Ancora Gilligan:“Non si può negare che viviamo in un Paese profondamente frammentato. Quello che mi interessa di questa serie e delle sue potenzialità è che la gente possa guardarla e, spero, chiedersi: ‘Come sarebbe il mondo se tutti andassero d’accordo?’. Ci sono diversi desideri appagati nell’idea di questa serie. Non so se mi fossi prefissato di crearla, ma ora ne vedo i reali benefici”. E promette: “Ne seguiranno delle complicazioni. È uno spettacolo che riserva alcuni colpi di scena sorprendenti”.
La felicità imposta è quindi la forma più subdola di controllo. Se tutti devono sorridere, nessuno può dissentire. È questo il cuore del paradosso raccontato da Gilligan: un virus che non uccide, ma addormenta. Ci viene chiesto di essere felici come ci viene chiesto di essere produttivi, e spesso le due cose coincidono.
In un mondo dove “andare d’accordo” è un obiettivo politico, l’individualità diventa un effetto collaterale da correggere.
“Salvare il mondo dalla felicità” evoca il lato oscuro del consenso: l’igiene emotiva come disciplina sociale. Se la gioia diventa un dato da ottimizzare e la serenità un protocollo da rispettare, il dissenso diventa “patologico”. Gli “immuni” come Carol non sono cinici: sono i custodi della complessità, e ricordano che non c’è unità senza differenza. Non c’è verità senza l’attrito del dolore.
Le sue parole spiegano perfettamente come Pluribus possa rappresentare la tempesta perfetta in questo panorama televisivo.
In altre interviste, Gilligan ha dichiarato di aver ideato la serie per Rhea Seehorn, interprete della protagonista. Reduce dalla meravigliosa esperienza con Better Call Saul, nella quale è stata una magistrale Kim Wexler, Gilligan si affida così al legame profondo con una musa artistica che l’ha portato a scrivere una storia dagli sviluppi imprevedibili.
Ogni sua dichiarazione della prima ora trasuda così un’urgenza. L’urgenza di lavorare ancora con un’attrice fantastica, e di raccontare una storia che possa essere uno spartiacque artistico di questa fase.
Oggi l’autorialità è un atto di resistenza: in un sistema che misura la creatività in secondi di retention, l’autore è colui che difende l’imprevisto.
Gilligan ha dalla sua il fatto che sia di per sé un franchise, ormai. E al cinema come in tv, lo spazio creativo più libero è riservato ai grandi autori: grandi autori che possono avere a disposizione grandi mezzi produttivi, come nel caso di Pluribus. A patto che la propria arte incontri un network che abbia il coraggio di investire sulla loro idea con una visione da prestige tv: Apple TV lo è, e da questa sinergia nasce una serie tv da cui ci aspettiamo tantissimo. È un privilegio raro: Gilligan ha così conquistato il diritto di poter essere libero fino in fondo. Sperimentare. Perché no: rischiare addirittura di fare un buco nell’acqua. Viste le premesse, non crediamo: non dobbiamo avere paura però di contemplare l’idea che Pluribus possa non essere all’altezza delle enormi aspettative.
Lo stesso Gilligan, d’altronde, non sa come Pluribus potrebbe essere accolta dal pubblico: Non ho alcuna previsione a proposito della reazione della gente a tutto ciò”, disse a Variety nel 2024. “Lo ameranno, lo odieranno o qualcosa di intermedio. So però che è una storia che mi interessa, e Rhea interpreterà un personaggio molto diverso da quello che interpretava in ‘Saul'”.
Andrà bene in ogni caso: la certezza acquisita è con Gilligan sentisse la necessità artistica di riabbracciare Rhea Seehorn e il genere sci-fi, già affrontato a lungo grazie a X-Files. Una serie che aveva al centro delle dinamiche due sostanziali eroi: come si evince dalle dichiarazioni dell’autore riportate in precedenza, è per lui il momento di immergersi in un personaggio che non abbia le caratteristiche antieroistiche di Walter White.
Insomma, ci siamo: pochi giorni ancora e potremo finalmente scoprire Pluribus.

Sono trascorsi dodici anni dalla fine di Breaking Bad, una serie che ha cambiato la tv e l’ha traghettata in una golden age della quale si sentono ormai solo timidi echi. La televisione è oggi altro, ma c’è ancora spazio per la visione di un uomo che crede nelle storie che racconta e nell’intelligenza di un pubblico che abbia la lucidità e la passione indispensabili per seguirlo nelle complessità, senza prendere scorciatoie. Un’esigenza ancora presente: in un’epoca dominata dalla nostalgia, abbiamo ancora bisogno di nuove storie. Storie che nuove lo siano davvero, come Pluribus.
Lo sostiene lo stesso Gilligan, qui intervistato dal Radiotimes: “Ho l’impressione che le persone sentano di aver subito molta pressione per rilanciare cose preesistenti. Tutto ciò è giusto, ma è un mondo grande con molti punti di vista diversi e un pubblico molto diverso. Penso che ogni nuova generazione meriti la propria mitologia, meriti le proprie storie. Questo è ciò che voglio vedere”.
Gilligan è chiarissimo a riguardo: “Mi dispiace per i giovani, che guardano e ripensano alle storie dei loro nonni. Credo che meritino le loro nuove storie e, sì, le storie dei loro nonni, senza dubbio, li tengono in vita. Manteniamo vive le storie: questo è ciò che ci rende umani, la possibilità di condividere storie, di condividere punti di riferimento”.
Ecco, condividiamo punti di riferimento. Nuovi punti di riferimento. Senza svilire chi scommette sui soliti franchise, senza sminuire gli artisti che trovano una chiave espressiva all’interno delle logiche più tradizionali del mercato. Perché no: pure dentro l’algoritmo si cela spesso qualcosa di nuovo.
Ma è altrettanto fondamentale ritrovare l’unicità di un artista che prende una strada tutta sua, in autonomia. Che abbia una voce e abbia la forza di esprimerla fino in fondo, come si faceva un tempo. Nel raccontare un mondo contagiato dalla felicità, Pluribus potrebbe diventare il suo antidoto più grande: un racconto che “cura” la televisione dalla stessa omologazione che mette in scena. Abbraccia l’estro individuale per ritrovare l’universale: “e pluribus unum” sia. Pochi hanno l’opportunità di farlo, ai massimi livelli. E per questo è giusto ringraziare fin da ora Gilligan.
Provaci ancora. Sorprendici. Sarà bello in ogni caso.
Bentornato a casa.
Antonio Casu





