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A caccia di menti: Mindhunter e Manhunt a confronto

Negli ultimi mesi Netflix ci ha coccolato, regalandoci un’infinita varietà di Serie Tv originali di altissima qualità: pensiamo solo alla recentissima e strepitosa Dark, alla godibilissima The Defenders, all’italiana Suburra e, ovviamente, a Mindhunter. Una Serie che sfruttava lo spunto (già visto in altre Serie, per carità, ma sempre attuale) della coppia di poliziotti che, complice una serie di indagini, si ritrova ad affrontare domande e questioni esistenziali di portata ben maggiore ai casi su cui lavorano.

mindhunter psycho killer

Mindhunter aveva il pregio di riuscire a delineare la psiche dei protagonisti, soprattutto dell’ambiguo Holden, in maniera sottile, non scontata, facendoci provare alternativamente pena, rispetto, distacco, schifo, empatia per loro.

Poco importava che avessimo davanti un serial killer reo di aver profanato il cadavere della madre a uso fellatio, o il responsabile del dipartimento di Scienze Comportamentali dell’FBI; noi vedevamo un uomo, e ci relazionavamo con lui in base a ciò che il personaggio ci trasmetteva. In questo Mindhunter, oltre che True Detective, ci ricordava un po’ anche il meccanismo alla base de Il silenzio degli innocenti: il poliziotto che crede di sfruttare le conoscenze del serial killer per ottenere informazioni preziose sul funzionamento della mente di un suo simile, e in realtà viene da esso plagiato e cambiato per sempre. Scena esemplare di questo processo di snaturamento, o di svelamento della realtà sotto la crosta di poliziotto, è quella in cui Holden viene aggredito in ospedale da Ed Kemper.

Mindhunter

 

Lo vediamo arrancare nel corridoio, morto di paura, dopo aver guardato la morte in faccia, e quando si accascia a terra in preda al terrore ci rendiamo conto di non respirare da parecchi minuti, da quando Ed si era avvicinato a lui. E abbiamo la sensazione che qualcosa, dentro Holden, si sia rotto per sempre, liberando una potenzialità nascosta in lui, che lo rende più simile ai mostri che intervista con pazienza e disciplina che ai colleghi con cui ostenta una falsa intesa. Holden è uno che si interroga, che riesce ad andare al di là delle apparenze e dei pregiudizi, che vede la persona, prima del mostro.

E questa cosa riesce a trasmettercela così bene che ci ritroviamo quasi a provare simpatia, per il grasso e feroce Ed Kemper, profanatore di cadaveri.

E questo è proprio il punto che lega Mindhunter a Manhunt, altro piccolo gioiello Netflix uscito da poco, e incentrato sull’indagine, la cattura, e il processo ad Unabomber. Anche Fitz, come Holden, si interroga sulla figura che ha davanti, e lo fa ancora prima di averla fisicamente vicina, nella sua cella. Si interroga così tanto che, alla fine, sceglie di vivere esattamente come lui, lontano dalla civiltà, dai doveri dell’uomo di famiglia e dal lavoro, lontano dalla tecnologia e da quella morsa e bavaglio che esercita sulla nostra vita. Una volta che hai preso coscienza di essere solo un ingranaggio in un meccanismo che tu stesso hai contribuito a creare, sembra dirci Ted Kaczynski, il genio sprecato e svilito dietro la maschera di Unabomber, non puoi voltare le spalle alla verità.

Gli interrogativi che solleva la visione di Manhunt – Unabomber, da questo punto di vista, sono molto più originali e scioccanti: siamo davvero liberi?

Possiamo accettare che la tecnologia controlli la nostra vita al punto da influenzare ogni singolo aspetto di essa, senza margine di libero arbitrio, e spesso contro la nostra volontà?

Una semplice luce rossa del semaforo può influenzare la nostra vita, o una porzione di essa, e noi non abbiamo la possibilità di farci niente. Subiamo la dittatura delle macchine senza interrogarci, subiamo il condizionamento della vita comoda, agiata e senza interrogativi che ci hanno insegnato a desiderare. La metafora del semaforo, in Manhunt, riesce a scioccare proprio grazie alla sua spiazzante semplicità; e la scena di Fitz con la pistola in mano, pronto a sparare contro un lampione in strada, reo di fare rumore di notte, è una scena potente, evocativa, grandiosa. Fitz rimane con la pistola in mano, incapace di mettere un freno al potere schiacciante che ha su di lui quella banale, ottusa lampadina a tre metri da terra.

La sete che Holden e Fitz hanno per le menti malate, perverse ma allo stesso tempo anche geniali, è la linfa che nutre e insieme accomuna Mindhunter a Manhunt.

Questa sete conduce a un’interrogazione su se stessi, più esplicita in Manhunt (vediamo nel concreto le conseguenze: Fitz lascia moglie e figli per vivere nella foresta come  Kaczynski), più implicita in Mindhunter (intuiamo solo un principio di svelamento di un lato oscuro di Holden, in primis nel rapporto con la fidanzata). Questa indagine che fanno su loro stessi ci porta a riflettere anche sullo specchio che utilizzano, in questo processo di autoanalisi: e questo specchio è deformato, sono le menti dei killer con cui si confrontano. Holden si ritrova a intervistare più di un serial killer, accumulando tensioni su tensioni che esplodono nel confronto finale con Kemper. Al centro della storia di Fitz c’è Unabomber, e la sua storia occupa una fetta abbastanza consistente della Serie perché noi riusciamo a capirlo, a conoscerlo e, in alcuni momenti, ad amarlo.

Soffriamo con lui ripercorrendo la sua infanzia infelice: genio in un mondo di persone ordinarie, desideroso di amare ma castigato puntualmente da ogni persona nella quale ripone fiducia.

Adolescente traumatizzato, costretto a ripetuti e sadici lavaggi del cervello. Non capito, non accettato nemmeno dalla sua famiglia, a vivere nei boschi l’unica vita che conosce: una vita in cui si può ballare sotto la pioggia, piangere rumorosamente, meditare vendetta verso il mondo intero mentre allo stesso tempo una piccola parte di sé che non muore mai spera ancora, in fondo, di essere amata. E infine catturato, finalmente piegato dal sistema, costretto in una gabbia, un uccello del cielo con ancora negli occhi il colore delle foglie degli alberi e il rumore del vento nelle orecchie; la reclusione di Unabomber ci sembra la giusta conclusione per la storia di un assassino, ma una triste sconfitta per una società malata.

Ed è forse anche questa la grande riflessione che accomuna Mindhunter a Manhunt – Unabomber: la grande accusa che lanciano alla nostra società quegli occhi profondi di assassino, potrà anche valere meno per noi quando pensiamo che proviene da uomini capaci di compiere atti atroci; ma non smette comunque di tormentarci di notte, appena le difese erette durante il giorno si abbassano, e la nostra psiche non diverge poi molto da quella degli uomini ai quali ci sentiamo, a torto, superiori.

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