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Adesso che l’abbiamo rivista sullo schermo, Mindhunter ci manca ancora di più

Mindhunter in Monster

ATTENZIONE: L’ARTICOLO CONTIENE SPOILER SU MONSTER: LA STORIA DI ED GEIN E SU MINDHUNTER.

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Salem, Oregon. Due individui dalle scarpe nere tirate a lucido e dal completo elegante camminano verso quello che ha tutta l’aria di essere l’ingresso di un grosso penitenziario. Registratore portatile sotto il braccio, camminata inconfondibile, portamento fiero e deciso, a testa alta. Li riconosceremmo tra mille: sono i protagonisti di Mindhunter. O meglio, i nomi dei personaggi sono cambiati e anche gli attori che hanno impersonato i nostri Holden Ford e Bill Tench (incredibile e accuratissima la somiglianza estetica tra Holt McCallany e Sean Carrigan), ma il risultato è rimasto lo stesso.

In quei primi venti minuti dell’ultimo episodio di Monster: La storia di Ed Gein (qui la nostra recensione), siamo saltati sulla sedia. Non per lo spavento – nonostante l’orrore delle tematiche trattate – ma per la sorpresa, lo stupore, la piacevole meraviglia di ritrovare due vecchie conoscenze alle quali siamo affezionatissimi.

Ryan Murphy ha dedicato un terzo della durata di quest’ultima puntata, intitolata Il Padrino, a omaggiare Mindhunter e il trio che ne ha dato il soffio vitale.

Oltre ai due agenti dell’FBI, infatti, compare anche la dottoressa e psicologa che nella celebre serie di David Fincher porta il nome di Wendy Carr.

Un terzo di episodio non è poco, anzi. Dalla messinscena di queste sequenze traspare tutta l’ammirazione e il rispetto che Murphy prova nei confronti del collega, tanto da averne ricreato sia il tono che lo stile narrativo. Infatti l’impostazione che avevamo visto fino a quel momento negli episodi precedenti, cambia completamente in questa prima parte di puntata. Persino la fotografia modifica le sue sfumature. Ed è così che davanti ai nostri occhi compaiono i tre professionisti del Dipartimento di Scienze Comportamentali impegnati in un’impresa non da poco: capire chi sia il killer che successivamente verrà identificato come Ted Bundy. Per aiutarsi nell’indagine decidono di rivolgersi ad altri assassini seriali, primo tra tutti Jerry Brudos.

I protagonisti
Credits: Netflix

E qui arriva un altro tocco di classe di Ryan Murphy, dato che l’attore Happy Anderson ha ripreso di nuovo il ruolo che aveva impersonato anche in Mindhunter.

Per noi spettatori questo è stato un secondo dejà vu che ci ha riportato in quella stessa cella, impregnata dell’odore delle sigarette di Bill Tench e del viso concentrato del giovane Holden mentre mostra un regalo al killer. Un paio di scarpe femminili col tacco, simbolo per eccellenza del feticismo di Brudos. Questa sequenza è praticamente sovrapponibile a quella che avevamo visto nella prima stagione di Mindhunter. Murphy però non si ferma qui. L’autore sceglie infatti di utilizzare il lavoro di profilazione fatto dal trio come pretesto per coinvolgere un Ed Gein ormai anziano. Sono gli anni ’70, Ed è ancora ricoverato presso l’ospedale psichiatrico di Madison ma è diventato un uomo più lucido e collaborativo.

In questa location avviene l’incontro e l’intervista fra i tre dell’FBI e il protagonista di Monster. Il tributo di Murphy al lavoro di Fincher si chiude così, con uno scambio di battute tra questi incredibili attori all’interno della camera di Ed. Naturalmente in questa circostanza Murphy si è preso una grossa licenza poetica pur di creare un ponte tra Mindhunter e il suo progetto. E a mio avviso le polemiche sollevate sulla scarsa aderenza alla storia della vita di Ed Gein lasciano il tempo che trovano se il risultato finale è qualitativamente e artisticamente elevato.

Credo infatti ci siano pochi dubbi in merito all’idea avuta da Murphy di provocare un effetto sorpresa tra il pubblico. Mettendoci davanti, una volta ancora, le movenze di Bill, Wendy e Holden.

Quel loro modo unico di scavare nella mente dei criminali e di arrivare a essere una squadra perfetta perché ognuno contribuisce con le proprie, personalissime qualità.

Ed Gein
Credits: Netflix

Giunti a questo punto dobbiamo ammetterlo. Un crossover Fincher-Murphy non lo avremmo mai immaginato, tanto che molti di noi lo hanno vissuto come un sogno a occhi aperti. Un evento che ha smosso la nostalgia e il senso di vuoto che proviamo ogni volta che pensiamo al mancato rinnovo di Mindhunter e quindi di una terza stagione che non è mai arrivata. Non so voi, cari lettori e lettrici, ma io un po’ ci spero ancora. Provo ottimismo nel pensare che prima o poi Fincher riprenderà in mano il progetto così da portarlo di nuovo sul piccolo schermo. A dir la verità, c’è un motivo preciso per cui si è riacceso un barlume di speranza tra i fan.

In una recente intervista, l’attore Holt McCallany ha dichiarato di aver avuto una conversazione con David Fincher durante la quale il regista non ha escluso un possibile ritorno della nostra amata serie. Stavolta, però, attraverso tre film.

Una trilogia su cui alcuni sceneggiatori sarebbero già al lavoro ma che non verrà realizzata se David non sarà pienamente soddisfatto. Insomma, a quanto pare siamo nelle mani dello spirito di eccellenza di Fincher e del suo sacrosanto bisogno di fare le cose per bene. Dopo anni di speculazioni sull’argomento, ormai ci aggrappiamo a qualsiasi indiscrezione.

Intanto il tempo passa e Mindhunter viene ancora considerata una delle migliori produzioni di Netflix. Sapere quali altri serial killer avremmo visto in un’utopistica stagione tre e come si sarebbe evoluta la sottotrama della famiglia di Bill (uno dei 15 detective più carismatici nella storia delle serie tv), sono curiosità rimaste sospese a metà. Ciò che proviamo ancora oggi è una sensazione di qualcosa di interrotto ingiustamente e senza aver completato il suo corso naturale. E quel che ci rimane è la volontà – impossibile da esaudire – di cancellare la parte di memoria che conserva la visione di questa serie, così da poterla rivedere ancora e ancora come fosse la prima volta.

Tuttavia, averla rivista sullo schermo grazie a Monster ci ha in parte ripagati (e appagati) della sua assenza. È stato consolante, per un certo verso, e avvilente per un altro. Insomma, ci siamo sentiti felici momentaneamente ma adesso ci manca ancora di più. Dunque, cara Netflix, non sarebbe il caso di ripensarci?