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La svolta italiana di Master of None delude le attese

Il successo di Master of None affonda le sue radici in una geniale commistione di elementi che si innestano alla perfezione l’uno nell’altro. C’è l’ironia sottile, la quotidianità della vita vissuta, la maestria degli interpreti, l’originalità dei personaggi. Ma dietro c’è soprattutto un’idea, che è quella che accomuna e fa riconoscere in Dev Shah (un brillante e finalmente protagonista Aziz Ansari) un po’ tutti noi giovani, avanti con gli anni ma mai del tutto cresciuti.

“Jack of all trades, master of none” è il tatuaggio impresso a fuoco su molti di noi. Ci danniamo l’anima dietro mille impegni e incarichi, accettiamo le proposte che la vita ci presenta ma non siamo mai pienamente partecipi di una conoscenza specialistica.

Sappiamo arrangiarci in quasi tutto, ma non siamo maestri in nulla. Che la colpa sia della morte del rapporto di apprendistato che legava il maestro all’allievo in un tramandarsi di saperi è probabile, ma non è questo il luogo per discuterne. Quel che conta è che Master of None in una sorprendente prima stagione ci ha messo di fronte a questa realtà. Ci ha messo di fronte a noi stessi, ai nostri dubbi, al nostro eterno barcamenarci tra mille occupazioni diverse. Anche, non neghiamolo, di fronte alla nostra inerzia, a quella stanca assenza di una passione che scuota e domini la nostra vita. Master Of None

Di tutto questo, simbolo quasi totemico diviene lo smartphone, onnipresente nello show, di volta in volta in mano a tutti i protagonisti.

Nella manipolazione dello schermo si coglie qualcosa di morboso, ossessivo, perverso a suo modo. Il telefono diviene oracolo per ogni domanda, il mezzo in cui si concretizzano rapporti a distanza, elemento che sancisce l’incomunicabilità tra generazioni di padri e figli. Proprio quest’ultimo tema, il distacco generazionale, è stato un leitmotiv costante della prima stagione. A far da contraltare l’immagine dell’autenticità di un rapporto -tra Rachel e Dev- che abbandona qualsiasi strumento intermedio e che si fa reale negli sguardi, nei sorrisi, nei delicati baci, nelle difficoltà di fare i conti con una quotidianità che viene a intaccare la passione.

Tutto questo è la prima stagione di Master of None. Appariva inevitabile dunque che, a seguito del meritatissimo rinnovo, la Serie si aggiornasse pur continuando a proporre la stessa quotidianità che appartiene un po’ a tutti noi, semi-trentenni in cerca di un nostro posto nel mondo.

Così, malauguratamente, non è stato. O almeno così non è stato per me. Apparirà forse un po’ strana e atipica per i lettori la soggettività a cui alludo. Quel per me che sa tanto di parere personale e poco critico. In realtà il tutto nasce da un vivace confronto tra membri di redazione che ha condotto alla stesura di due diversi articoli a commento e integrazione della seconda stagione di Master of None. Uno dai toni lusinghieri, l’altro vagamente mortificante. Come spiegare questa diversità di vedute? Tutto il senso sta in quel per me.

Già, perché Master of None può essere una Serie che lascia indifferenti come pure uno show che travolge e tocca corde inaspettate. Tutto si lega alla soggettività della vostra esperienza personale e del ritrovarsi o meno nelle situazioni esposte. È per questo che noi di Hall Of Series abbiamo voluto proporvi due visioni diametralmente opposte. Vi chiediamo di valutarle entrambe e scegliere quella in cui vi ritrovate maggiormente. Fermi comunque nella convinzione che entrambi gli articoli abbiamo molto da dire e possano aspirare a un senso di completezza solo integrandosi vicendevolmente.

Fatta questa dovuta premessa passiamo ad analizzare la seconda stagione di Master of None più nel dettaglio.

Ci troviamo catapultati in Italia, a Modena, dove Dev è fuggito per dimenticare un amore concluso. In quell’ideale immagine dell’Italia campanilista, magnacciona e verace il protagonista sembra trovare un suo assestamento. I primi due episodi abbandonano le suggestive scenografie newyorkesi per immergersi in un bianco e nero carico di nostalgia cinefila. C’è la strizzata d’occhio costante al grande cinema d’autore felliniano ma a lungo andare la realtà che si fa largo è quella banale e sciatta di un Paese indagato con gli occhi acritici di un americano medio.Master Of None

C’è ovviamente una deliberata volontà di calcare la mano sugli stereotipi più tradizionali (ospitalità, gestualità spinta, sguaiataggine). Ma l’immagine che se ne ricava sa di quel già visto della peggior specie (“To Rome with Love”, “Mangia, Prega, Ama”). L’ironia connaturata in Aziz Ansari si attutisce di fronte alla ripetitiva tematica e all’imbarazzo di dialoghi degni della peggiore Soap Opera.

Iniziamo il terzo episodio con l’amaro in bocca e le migliori attese tristemente naufragate. Ma l’aria di New York fa riacquistare colore agli interpreti.

Il ritorno di personaggi ben rodati va in soccorso di una trama che annaspa dietro troppe incertezze. La nuova occupazione di Dev sancisce l’abbandono di quell’instabilità lavorativa che era parte integrante della sua personalità da “master of none” (esperto in nulla) della prima stagione. Dall’altro lato, il terzo è anche l’episodio del ritorno a questioni consuete, nella fattispecie al rapporto con la religione.

Il tutto appare però affrontato in maniera piuttosto scolastica e poco approfondita. Ci ritroviamo poco nelle vicende di figli che mantengono una religiosità superficiale per amore dei genitori. Anche il padre di Dev (vero padre di Aziz attore), solitamente eccezionale nel rappresentare la distanza culturale tra genitori e figli, si mostra stranamente monotematico e privo di smalto.

In linea generale, si registra un appiattimento della profondità tematica e la critica sociale implicita risulta piuttosto scontata rispetto alla mordente ironia dei temi della prima stagione (l’integrazione delle minoranze in primis).

Fortuna vuole che Arnold e Denise, gli amici più stretti di Dev, non vengano meno alla loro forza espressiva, alla attenta caratterizzazione che li aveva resi già nella prima stagione figure perfette per assorbire e fornire un parere ai dilemmi quotidiani dell’amico. Di fronte però a una pochezza contenutistica anche i loro consigli vengono a banalizzarsi e le scene a risultare ripetitive.Master Of None

L’episodio Denise-centrico (2×08, “Il Ringraziamento”) rimane comunque il vertice più alto di una stagione mediocre.

La grande assente è la tematica amorosa. Non che non vi sia, anzi, appare perfino dominante nell’economia degli episodi. Il problema è che risulta una vuota ripetizione di situazioni già viste. La Mastronardi, tutta costretta nel suo consueto ruolo di ragazza genuina e spontanea dalla melensa vivacità, è interprete incerta e a tratti stucchevole. Il rapporto tra i due piuttosto scontato: l’amicizia che diventa complicità, la paura di affrontare il sentimento, il distacco. In mezzo, un quanto mai gesticolante Scamarcio a far da ostacolo al buon esito della vicenda.

La bellissima musica di Battisti, Amarsi un po’, a conclusione del nono episodio, addolcisce la noia di situazioni che si avvolgono su se stesse e non portano a nulla. Ci si sente poco partecipi del mal d’amore che attanaglia i due protagonisti anche se nel crescendo finale il tutto si fa più struggente e le incertezze, come pure gli imbarazzi interpretativi, paiono sciogliersi un po’.Master Of None

L’idea che se ne ricava è quella di aver assistito a una seconda stagione di Master Of None speculare alla prima, che ne riprende a livello formale le tematiche (sociali e amorose) ma che non riesce a ripetersi pienamente. Si banalizza il tutto standardizzando quell’originalità ironica e quel toccante sentimentalismo che tanto ci avevano conquistato al momento dell’esordio datato 2015.

È inevitabile, a conclusione della visione, chiedersi se Aziz Ansari abbia effettivamente ancora qualcosa da dire o se piuttosto non abbia esaurito le sue cartucce nella prima stagione, quando ci regalò un piccolo gioiello seriale che avrebbe volentieri fatto a meno di un seguito tanto scontato e anonimo.

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