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Lie to me – Il piacere della menzogna

Quando metodo, pratica e teoria di una disciplina vengono messe in disamina, viene fuori uno studio.
Quando di queste ne viene individuato ed estrapolato l’aspetto prettamente scenico, misto al misurato innesto teorico che galvanizza le aspettative, viene fuori un lavoro simile a quello svolto da Sam Baum con Lie to me.
Le scienze umane diventano oggetto, lente e osservatore di un piano più ampio, un progetto senza tabelle di marcia regolato da legami e convenzioni: quello della vita, raccontata con i sorrisi di amori e amicizie, e con la dissimulazione emotiva e menzogna della criminalità.

Una narrazione promiscua di cui Cal Lightman ha già letto il copione, imparato a memoria le battute e fatto pratica nella Nuova Guinea.
È qui che la formazione dello “specialista della menzogna” raggiunge il punto apicale.

Dopo aver approfondito i suoi studi alla facoltà di psicologia di Oxford, infatti, egli si sposta tra le popolazioni indigene allo scopo di rifinire in maniera definitiva il lavoro di identificazione, catalogazione e mappatura delle emozioni umane e della loro manifestazione.

È impossibile nascondere le emozioni che è in grado di suscitare il personaggio interpretato da Tim Roth.
Cal Lightman direbbe: “12D+25C.

Vi assicuro che capirete.

menzogna

L’eclettico Tim Roth, anche stavolta, personalizza il protagonista con quell’insito tratto eccentrico, stravagante e vagamente borioso che spesso è tipico dei personaggi da lui interpretati.

Sarà impossibile dimenticare il binomio che vede l’intuito osservativo del brillante Cal accompagnare il convulso gesto del dito indice che punta il volto dell’incriminato. Come se ogni fibra di concitazione venisse spinta verso il vertice del suo dito per lasciare posto, nel resto del corpo, a quella apparente calma serafica che lo contraddistingue.

Tutto al fine di assemblare la figura dello studioso che ha gettato le basi di un’intera branca antropologica e ha espressamente ispirato la serie televisiva: Paul Ekman.
Quasi tutti i cenni di vita vissuta che echeggiano tra le vicissitudini di Cal Lightman nella serie sono un appunto biografico di Ekman.
Ci ritroviamo, quindi, dinanzi ad una nuova figura rappresentativa nelle serie televisive: la medicina ha avuto il suo “Dottor House”; prossemica e cinesica, e più generalmente la psicologia, hanno avuto Cal Lightman.

Appena approdati nell’etereo ed infinito bianco dell’anticamera della “Lightman Group”, siamo inevitabilmente coinvolti dal senso di cameratismo, passione congiunta, raggiungimento comune di obiettivi che non si limitano al semplice profitto lavorativo, ma sconfinano i più banali interessi per dimostrare alle istituzioni l’efficacia del pensiero laterale, l’influenza di una percentuale che non fa la scienza esatta ma prepara il campo, surclassando la macchinosità della tediosa e talvolta infruttuosa “procedura”.

Un senso di attaccamento e ardore alla disciplina che ha il palese retrogusto di tributo a Ekman; tributo che, con frizzanti dialoghi sulla diatriba “scienza umana/scienza esatta”, è stato meticolosamente ricordato senza risultare mai pesante bensì piacevolmente rarefatto.
I rapporti personali ed emotivi passano tutti per Cal, il quale è catalizzatore di interesse, grazie anche alle sfumature di mistero che annebbiano l’incerto passato del “dottore”.

Cal ha divorziato e ha una figlia, Emily, che vive con lui.
È di una professionalità inopinabile, ma indubbiamente prova sentimenti che oltrepassano il convenzionale rapporto lavorativo con la sua collega Gillian Foster.
È freddo e cinico, ma non sarà difficile percepire il celato intento preservante nei confronti di uno dei suoi dipendenti di spicco Eli (spesso vittima di severi trattamenti).
È stacanovista, ma il suo vetro di intolleranza e ossessivo attaccamento al metodo scientifico non tarderà a infrangersi dopo il reclutamento della giovane e istintiva Ria Torres. Quest’ultima si rivelerà, come Gillian preannuncia, il tassello di cui la squadra mancava.

Paul Ekman, ne “I volti della menzogna” (libro in cui ha illustrato tutti i suoi studi ed introdotto il FACS: “facial action coding system” di cui Cal si avvale per codificare e rilevare le emozioni nella serie, al fine di smascherare la menzogna) suddivide il “bugiardo” in una molteplicità di categorie i cui stereotipi sono costruiti sostanzialmente dalle motivazioni che muovono il mentitore. Uno di questi è “l’attore nato”.
Secondo Ekman, questo è uno dei casi (insieme con quelli di sociopatia) in cui il mentitore è in grado di reggere la dissimulazione senza mostrare cedimenti, poiché privo di pressione. Immune agli “indizi di falso” o agli “indizi rivelatori”.
Una sorta di talento naturale, insomma.
Questo ci ricollega a Ria Torres.
In Lie to Me, lei è la figura speculare all’”attore nato”: il “talento naturale”, ossia ciò che inizialmente Cal tenderà a denigrare proprio a causa del suo attaccamento al metodo scientifico, al quale ha dedicato una vita e che per questo ritiene imprescindibile.

Il viscerale accanimento di Cal è motivato dalla forza del sacrificio, dallo sforzo che ha creato dei binari nel deserto, rendendo scientifici dei criteri che le persone maneggiano con intuito e approssimazione.
Talvolta in malo modo.

“Bisogna conoscere la scienza, per non commettere errori. Perché è possibile sbagliarsi, e fare del male a qualcuno.”

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Si arrovella tra i dolori del passato, segue la corrente e sfocia tra i casi di criminalità del presente, il Cal interpretato da Tim Roth. Non percepisce pericolo, ma è tutt’altro che immune al dolore velato all’apparenza.

Si addossa una centralità che ci permette di recepire la vulnerabilità della sua persona, una centralità iconica e radicata che asserisce sin dalla suggestiva sigla, accompagnata dal “non-casualmente” tematico motivo di Ryan Star: “Brand new day”.

Send me a sign”, supplica il testo.
Mandami un segno” è il disperato imperativo che Cal sembra voler imporre alla vita, attendendo forse fin troppo nelle scelte cruciali della sua sfera emotiva, in cerca di una conferma. In cerca di quell’involontario spasmo del “muscolo buccinatore” sul volto del destino che gli faccia finalmente capire che il fato mente e che è il momento di scoprire le carte in tavola.

Così, Lie to me ci spiega che ciò che riteniamo banale nasconde dinamiche codificabili, da apprendere al fine di non commettere “banali” errori. Lo fa avviandoci a una disciplina fin troppo bistrattata.

Non abbiamo ancora scoperto come la rete neurale crea la coscienza di sé, o di come sia esaminabile il processo per cui il cervello umano elabora le immagini a due dimensioni che riceve dalla retina per trasformarle nel fenomeno tridimensionale che noi riconosciamo come “percezione”. Eppure, guardiamo negli occhi di una persona e ammettiamo di scorgervi un’emozione.
Affermiamo di vedere l’invisibile.

Questi sono i dettami della vita, dell’esperienza; Lie to me scava dietro quel “so che è così, te lo leggo negli occhi” e spiega la ragione che muove l’intuito, razionalizzando la percezione delle emozioni e il sospetto della menzogna, piazzando un cappio al collo alla casualità e diventandone il boia.

Il tutto a un solo, essenziale scopo: svelare la singolarità della veritàPerché se è vero che il falso e la menzogna abbiano più facce, e che una menzogna possa avere più caratteri divenendo all’occorrenza “bugia bianca” o “bugia nera”, è anche vero che la verità è una, ed è scritta sul nostro volto.

Riavvolgendo gli orologi – come suggerisce la sigla – torniamo ad inizio testo. Pensiamo al fare saccente e sguardo vacuo di Tim Roth che indica i muscoli del nostro volto, e capiamo.
12D+25C = angoli delle labbra innalzate e bocca aperta.
Sorriso.

Cal Lightman (o Paul Ekman che dir si voglia) potrà anche aver “dato i numeri”, ma noi ne abbiamo fatto delle emozioni.
È inutile mentire, la verità è scritta sul nostro volto.

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