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La Critica Distruttiva – Casa di Carta o… castello di carte?

Attenzione: questo articolo contiene spoiler su La Casa di Carta!

Ne voglio parlare? No. Sento di doverne parlare? Assolutamente sì. La mia esperienza con La Casa di Carta si potrebbe descrivere come una di quelle storie d’amore banalmente complicate, in cui ci si aspetta chissà che cosa dall’altro, ma lui è troppo impegnato a coccolare il proprio ego per far caso alle tue esigenze. E così tu rimani lì, a sperare che cambi, che torni quello di un tempo, mentre quello che doveva essere un affidabile compagno di vita si trasforma lentamente in uno sciocco narciso, parlando per frasi fatte e, nei casi peggiori, dimenticandosi persino come ti chiami.

Lo so, lo so che “La Casa di Carta non si tocca perché è uno dei migliori prodotti Netflix degli ultimi anni“, ma cosa devo dirvi? Se la prima stagione, per quanto “affine” al noto film Inside Man, aveva ogni ragion d’essere, questa quarta parte (e buttiamoci dentro anche la terza) ha indubbiamente attraversato una forte crisi esistenziale. Me la immagino sdraiata sul lettino del terapeuta mentre riflette: “Non so bene cosa voglio fare da grande, credevo di avere un futuro come serie d’azione, con una spolveratina drammatica qua e là, però… forse la vera me stessa è una telenovela. A pensarci dovrei provare a contemplare strade diverse. Magari potrei fare il meme sui social, non suona malaccio“.

Non dico che La Casa di Carta 4 non possa piacere, siamo chiari. Dico solo che agli appassionati, forse, è sfuggito qualche dettaglio.
Per cui, se questa quarantena vi annoia e la mia compagnia acidina vi mancava, parliamo un po’ di cosa hanno combinato nella nostra telenov… ehm… serie tv spagnola preferita. No sul serio, parliamone. Nel teatro dell’assurdo si alzi il sipario.

Why so serious?

Nelle prime due parti de La Casa di Carta tutto aveva senso: c’era l’azione, c’erano strategie e piani ben congegnati, colpi di scena misurati, uno stile narrativo di ottimo livello. Con queste premesse, Netflix non poteva certo rimanere indifferente e, vedendo il successo ottenuto dalla serie, ha ben pensato di mettere lo zampino in fase produttiva. Il risultato lo abbiamo visto: dialoghi da soap opera latineggiante (chi non è esploso in una fragorosa risata sentendo paragonare Tokyo a una Maserati ha un invidiabile autocontrollo, complimenti), personaggi spessi quanto carta velina (fatta eccezione per due o tre casi) e soluzioni improbabili a problemi altrettanto improbabili.

Dall’ignara Lisbona che balla inspiegabilmente euforica per festeggiare “non si sa bene cosa”, all’ermetico Marsiglia che meriterebbe un premio come miglior raviolo non protagonista (scusate, ormai nella mia testa lo visualizzo come un raviolo gigante, è più forte di me), alle assurde sparatorie cinque-contro-uno in cui la preparazione militare della banda sembra essere stata gestita da Topo Gigio. Insomma, questa volta La Casa di Carta è riuscita a raggiungere vette di trash inarrivabili e a piantarci sopra la bandierina da conquistatrice, come abbiamo già constatato nella nostra recensione. Credo che, alla fine, la morale sia solo una: quando le cose si mettono male chiedete alle forze dell’ordine di portare la paella! Perché la tensione non sempre si taglia con il coltello, a volte una forchettata basta e avanza.

La Casa di Carta: fanservice all’italiana

La Casa de Papel 4

Quando pensiamo di aver visto tutto quello che potevamo vedere, ecco che un flashback del matrimonio di Berlino ci ricorda che il fondo non è ancora stato toccato. Ho sempre adorato lo sfrontato fratello del Professore, identificandolo come l’esteta della serie, il detentore dello stile e del buon gusto. Purtroppo, nella vita c’è sempre tempo per disilludersi. Ecco in sintesi le sue nozze: così intime che a confronto un picnic della domenica sembra un concerto rock (sospetto che la sposa sia nata da un carciofo, vista la lunga lista dei suoi invitati), all’interno di una canonica, con un coro di frati sullo sfondo.

Un coro. Di frati. E io che mi lamentavo dei cantanti neomelodici.

Ma non finisce qui: Alex Pina si prodiga negli omaggi al Belpaese, e noi ci troviamo ad ascoltare basiti, ma anche affascinati, alcuni grandi classici della musica italiana nella versione inedita di Berlino, con tanto di accompagnamento monastico. E se l’italianità non dovesse bastare, oltre a Tozzi e Battiato, in un altro flashback assistiamo a un interessante parallelismo tra l’azione di Palermo durante una partita di calcio e il noto cucchiaio di Totti. A questo punto vorrei far presente il mio disappunto: durante la tregua la banda avrebbe dovuto richiedere pizza e carbonara. Così, per coerenza.

Se il Professore potesse dire la sua

La Casa di Carta

Come vi ho già detto, a me La Casa di Carta piaceva pure. Mi piaceva talmente tanto che, quando ha cominciato a deludermi, ho provato a immaginare come avrebbe reagito il Professore al mio posto, comodo comodo sul divano. Nella mia mente lo vedo già, con gli occhi spalancati, a chiedersi come sia possibile che i piani infallibili frutto della sua mente eccelsa si siano improvvisamente trasformati in un altissimo e traballante castello di carte. Concediamo pure che il Professore sia così sprovveduto da farsi beccare dall’agente Sierra con un inglorioso “scacco matto”, ma vogliamo parlare di tutto il resto?

Rio è salvo e intorno a lui si è costruito un caso mediatico, lasciamo perdere la questione di Nairobi (altrimenti piango), Lisbona è tornata all’ovile dopo mille peripezie e Arturito occupa così tanto spazio sulla scena da far credere che non ci sia poi molto altro da dire. A proposito di Stoccolma, che si improvvisa capo della fonderia, vorrei fare inoltre una piccola annotazione: mio padre mi ha chiesto di specificare che il punto di fusione dell’oro è 1064,8 °C e che non fonde più velocemente alzando la temperatura a 1700 °C. Il Professore non vi ha insegnato proprio niente?

Alla fine, nonostante gli eventi implausibili, i dialoghi “fantasiosi” e il fumo emotivo che ci viene buttato negli occhi per coprire i giganteschi buchi neri di cui è costellata la trama, una cosa la devo dire: non ho staccato gli occhi dallo schermo. Volevo spegnere la tv per i due terzi del tempo, ma non l’ho mai fatto. So che non lo avete fatto nemmeno voi. Questo perché, pur essendo una trashata in continua espansione, La Casa di Carta ha il ritmo giusto, sa come mantenere viva l’attenzione, e noi continueremo a credere in lei, volenti o nolenti.

Come vi dicevo all’inizio: siamo finiti in una relazione disfunzionale.

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