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Una delle new entry più interessanti della terza stagione de La Casa de Papel è sicuramente Palermo. Presentato come l’eccentrica testa calda della banda, è la mente che insieme a Berlino ha ideato il folle piano alla Banca di Spagna.

Geniale, furbo, malizioso: rappresenta il talento creativo e contemporaneamente folle, capace di escogitare l’impresa del secolo.

Ne La Casa de Papel il suo personaggio rincorre le orme di Berlino e, con affetto, tenta di emularlo. Nei gesti, nella dialettica, nel modo di difendere e attaccare. Martín, alias Palermo, è un naufrago che cerca la salvezza dopo aver perduto parte del suo mondo. E come l’eroe omerico si rifugia in un’isola, rimanendovi per anni per fuggire al dolore e alla perdita.

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Non si conosce granché del suo passato, né dei suoi trascorsi con Andrés de Fonollosa. Eppure Martín diventa il leader di questa disavventura, la mente meccanica che ha elaborato tutto. Durante la narrazione comprendiamo che l’uomo è un esperto matematico, nonché un ingegnere dal grande talento. Amico del carismatico Berlino, egli svolge il ruolo di spalla, di aiutante. Nonostante voglia apparire come il capo del gruppo, capiamo immediatamente che quelle vesti non gli calzino perfettamente. Accecato dalla rabbia e dalla perdita, egli segue il piano escogitato con il vecchio amico, incurante dei compagni e delle possibili divergenze.

Palermo si costruisce sul mito di Berlino, cercando di emulare la parte migliore di lui: quella della guida, del leader. E non lo fa perché è invidioso, o perché l’interesse nei suoi confronti è morboso. Il suo obiettivo appare unicamente quello di rendergli, in qualche modo, omaggio. Ripercorrendo le sue gesta, facendo proprio il coraggio di cui Andrés si faceva spesso vanto, egli esprime in questo modo un’ammirazione che va oltre la morte.

Il suo personaggio è caratterizzato da numerose sfaccettature e, probabilmente, quella più affascinante riguarda il rapporto con Berlino. Le loro scene insieme sono limitate, eppure si scorge tra i due quella chimica che, a occhio nudo, è facile percepire. Martín e Andrés sembrano due facce della stessa medaglia, così simili eppure così diversi. Dal carattere forte e dalla personalità carismatica, i due si riuniscono e creano il piano più formidabile di sempre.

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Le idee di Berlino, i calcoli di Palermo: il mix funziona benissimo e la loro alchimia riesce a trasformare la follia in speranza.

Il loro rapporto sembra coltivarsi sulla base di un reciproco opportunismo. Mentre il primo ambisce al successo personale e alla gloria, il secondo si nutre delle semplici attenzioni dell′amico e della sua compagnia, custodendo con gelosia il segreto del proprio affetto.  Nel grande piano entrambi hanno mansioni e ruoli differenti. Se Berlino incarna il tipico uomo carismatico e affascinante per il sesso femminile, Palermo ne è la controparte. Più riflessivo, più comprensivo, egli cerca di essere indulgente nei confronti dell’amico e delle sue partner di turno. Di Andrés accetta le sfumature peggiori e rispetta i difetti.

La perdita dell’amico, indispensabile, è quindi un duro colpo per il leader di questa terza stagione. Con la morte di Andrés ogni cosa si scardina e perde valore. L’uomo, d’altronde, era già consapevole della malattia del compagno e nonostante tutto non sembrava ancora pronto a perderlo, non in quel modo. Dinanzi al Professore egli mostra le sue debolezze e la propria fragilità. E l’amore che nutriva per Berlino rende La Casa de Papel 3 la stagione del rimpianto.

Durante La Casa de Papel, Palermo vive la rapina come un omaggio al proprio compagno. La morte non lo spaventa, al contrario il pensiero di poter essere catturato lo motiva e lo sprona. Egli cerca di mantenere un controllo che vacilla in più di un’occasione, divenendo succube del proprio orgoglio. Martín si perde in quel caos che non rientrava nei programmi e che, in ogni caso, ha fatto il suo ingresso. Quello stesso caos che Berlino ha descritto al fratello e al quale ha scelto di abbandonarsi.

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La vita è un giocare alla cieca e La Casa de Papel 3 ci mostra Palermo che quella partita vuole vincerla a ogni costo.

Il suo contributo alla banda è fondamentale, sebbene egli non sia mosso dalla gloria, né dall’affetto verso i propri compagni. Martín è egoista, è indipendente, non si cura della sensibilità altrui, né dei loro punti di vista. Non ha nulla da perdere lui, poiché ha già perso abbastanza.

Egli incarna lo spettro di quella rapina che, tutto sommato, tre anni prima è andata bene. Rappresenta la sconfitta e il costo di quell’impresa titanica. E malgrado Palermo sia considerato la guida di quella folle squadra, egli non è tagliato per esserlo. È sempre stato il numero due, la spalla di Berlino, e in quel ruolo ci si trovava bene. Lo stravolgimento causato dalla morte dell’amico non è stato soltanto un duro colpo dal punto di vista sentimentale. Dopo la sua scomparsa, Martín ha dovuto riprendere in mano la propria vita e ricalibrarla da capo.

La morte di Berlino durante la rapina rappresenta lo scacco matto di una partita durata troppo a lungo. È il sacrificio inaspettato eppure necessario, affinché il piano sia portato a termine. Martín non ha mai considerato l’opzione di poter perdere l’amico se non a causa della sua malattia e l’improvvisa scomparsa lo rende vulnerabile alle emozioni. Inizia così ad allontanarsi dalle possibilità di ricominciare, perdendosi nei ricordi del passato e in futili stratagemmi. La teoria del “bum bum ciao” non è soltanto un modo per distrarsi ed evitare legami. Essa rappresenta la strategia di difesa di Palermo nei confronti del mondo, considerato inaffidabile, imprevedibile.

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Martín, in quel caos definito dall’amato come straordinario e sorprendente, si smarrisce.

Incapace di ritrovare la via verso la remissione, egli si mostra violento e rude, aggressivo e superficiale. La missione alla banca non può e non deve essere contaminata dalle emozioni che, per l’uomo, rappresentano ormai soltanto una debolezza. Berlino rappresenta così uno dei talloni d’Achille del protagonista, costretto a fare i conti con il rimorso di non essersi mai dichiarato e, soprattutto, non avergli mai detto addio.

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