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Hunters, una serie molto tarantiniana senza la classe di Tarantino

La nuova serie targata Amazon Prime Video, Hunters, è un progetto ambizioso. Non solo per via dei pezzi da novanta che mette in campo: su tutti un sempre eccellente Al Pacino, senza dimenticare Jordan Peele come produttore esecutivo, lo stesso dei due successi: Get Out e Us. Ma soprattutto per via di un cast che, in generale, definire stellare sarebbe quasi riduttivo: Logan Lerman, Josh Radnor, Jerrika Hinton, Dylan Baker, Lena Olin e principalmente la straordinaria coppia, in scena, composta da Carol Kane e Saul Rubinek.

Quando si dispone di una squadra così è tutto più facile. Bisogna però tenere bene a mente che la formula magica che fa funzionare una serie tv prevede molti elementi oltre agli attori. Ci vuole un soggetto interessante, una sceneggiatura all’altezza, una regia attenta, una fotografia azzeccata e una colonna sonora incisiva. E infine, è fondamentale riuscire a mischiare tutti questi aspetti in modo sapiente ed equilibrato, così da generare l’amalgama perfetto. O almeno il migliore possibile.

Hunters

Hunters è un’ottima serie tv. Ampiamente superiore alla media dei prodotti in circolazione. Decisamente accattivante, godibile e ben orchestrata. Eppure le manca qualcosa per salire l’Olimpo della serialità contemporanea. Siamo solo alla prima stagione e la speranza è che quelle poche ma fondamentali cose che non hanno funzionato a dovere oggi, vengano tarate e aggiustate domani. Nel frattempo, fatta questa doverosa premessa, lanciamoci a capofitto in Hunters.

Vivere una bella vita non è la miglior vendetta. La miglior vendetta è la vendetta.

Questa è la frase che racchiude in sé l’intero significato di Hunters, dove per vendetta si intende quella dei sopravvissuti all’Olocausto che, nella serie, danno la caccia ai nazisti rifugiatisi negli Stati Uniti dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Il punto di vista è quello di Jonah Heidelbaum (Logan Lerman), un adolescente nerd nella New York del ’77 che vive di fumetti, Star Wars e spaccio di droga. È stato cresciuto dalla nonna dopo la morte dei genitori e vive ancora con essa. Quest’ultima, sopravvissuta a un campo di concentramento, ha partecipato negli anni alla creazione di una squadra con lo scopo di scovare i nazisti riusciti a rifarsi una vita negli Stati Uniti. Una volta trovati vengono torturati e uccisi.

Jonah non è particolarmente religioso, né si sente coinvolto dalla comunità ebraica. Questo non gli impedisce però di subire aggressioni e atteggiamenti razzisti da parte di altri ragazzi del quartiere. Situazioni che Jonah sopporta con impotente e mal celata rassegnazione. La sua vita cambia quando un uomo incappucciato si introduce in casa sua e uccide la nonna. Questo porta Jonah all’incontro con il ricco e anziano Meyer Offerman, amico di lunga data della defunta donna.

Intessuta attorno a questo filone della trama principale c’è l’inchiesta sull’omicidio a Cape Canaveral di un’anziana scienziata della NASA. Millie Malone (Jerrika Hinton) è un’agente dell’FBI afroamericana che soffre di tutti i travagli che derivano dal lavorare in un ufficio di bianchi alla fine degli anni ’70 in America.

Le viene assegnato questo incarico principalmente per farla stare lontana del suo capo che non apprezza la sua intraprendenza.

Nel frattempo, nella periferia del Maryland, si verifica uno scoppio di violenza surreale e molto tarantiniano quando il sottosegretario di Stato Biff Simpson, che sta preparando un barbecue a bordo piscina, viene riconosciuto dalla nuova ragazza di uno degli ospiti come “il macellaio di Arlem”. Biff, magistralmente interpretato da uno straordinariamente raccapricciante Dylan Baker, non lascia dubbi sulla sua vera identità. Quindi estrae una pistola e spara a tutti. “Sono così felice di non averti gasata nel campo“, sogghigna prima di uccidere la ragazza che lo ha smascherato. “Questo è molto più delizioso. Che ragazzo affamato sono stato. Lo siamo stati tutti“.

Il personaggio di Jonah è un mix curioso e interessante di Peter Parker, un eroe incipiente che non ha superpoteri, ma è un mago a decifrare codici, e il Robin di Batman. Un vorrei ma non posso che muove in maniera diligente la trama permettendo l’entrata in scena dei coprotagonisti in modo magistrale. Il team di “Cacciatori” comprende infatti, oltre al già citato Meyer di Al Pacino, una coppia litigiosa (Carol Kane e Saul Rubinek), un attore sciatto (Josh Radnor), un veterinario del Vietnam (Louis Ozawa), una ragazzina afroamericana dal carattere d’acciaio in perfetto stile Pam Grier (la regina dei blaxploitation anni ’70) di nome Roxy Jones (Tiffany Boone) e una suora violenta (Kate Mulvany).

Hunters

Ma Jonah, fin dal primo episodio, è anche l’incarnazione del dibattito morale sui fini contro i mezzi. Sul senso della giustizia in omicidi da parte di vigilanti anche quando le vittime sono ex nazisti che hanno portato i loro piani per il dominio del mondo negli Stati Uniti.

Jonah insomma raccoglie in sé tutti quei conflitti di ordine etico e morale che Hunters vole affrontare.

Vive e agisce perennemente in bilico tra gli insegnamenti ricevuti della nonna e derivati dalla Torah: “Vivi bene. È la miglior vendetta” e l’umana, animalesca, travolgente sete di vendetta: “In un mondo di diarrea e di costipazione, a volte è normale essere un semplice pezzo di m***a“. Egli incarna quindi la bussola morale che ci aiuta a muoverci all’interno di Hunters. La serie infatti si muove sul filo sottile tra Storia, quella con la “s” maiuscola, e la fantasia.

La sceneggiatura dell’esordiente David Weil inizia a muoversi dal suo bagaglio personale di ricordi. Dai racconti della nonna reduce dei lager nazisti passando per la cultura pop nel quale è cresciuto. Le citazioni dirette e indirette a cinema e fumetti sono molteplici, costanti e genuine. I dialoghi sono farciti da riferimenti a supereroi e supercattivi usati sia come metafora che come spiegazione diretta per il pubblico.

Questo comporta che Hunters attraversa una molteplicità di generi molto variegata. Nei primi episodi, diciamo fino al quinto, questo turbinio di stili, seppur capace di regalare momenti realmente magistrali, soffre di un disequilibrio marcato che rende confusa la visione e la fruizione. Si passa con troppa velocità dall’uno all’altro in una cacofonia di immagini e cifre drammaturgiche non sempre efficace. Tarantino è un punto di riferimento chiaro e preciso, soprattutto all’inizio. Lo è nelle esagerazioni ed esasperazioni del movimento della camera come nelle interruzioni della narrazione per intramezzi, rotture della quarta parete o cameo esplicativi – su tutti la bellissima presentazione della squadra a Jonah in ascensore – che però suonano troppo spesso come tentativi autoreferenziali per sottolineare in modo didascalico i punti di riferimento dello stesso Weil.

Hunters

Le “tarantinate” del geniale regista di Knoxville hanno un’anima e un respiro estetico talmente di qualità e spessore da risultare difficilmente replicabili come semplici stilemi di linguaggio visivo.

La serie può sembrare molto tarantiniana, io stesso ho pensato che se mai Tarantino mettesse in scena una serie tv non si discosterebbe molto da questa (qui le ultime notizie sulla possibilità di vedere la sua Bounty Law), ma dopo un paio d’ore di visione ho iniziato a storcere un po’ il naso trovando queste ripetute scelte un po’ troppo forzate. Fortunatamente nel proseguo della stagione è stato aggiustato il tiro arrivando a calibrare e dosare meglio questi elementi.

Ma, oltre a Tarantino, Hunters richiama anche elementi di black humor, del grottesco e del surreale. Di base quindi risulta una sorta di graphic novel in movimento con stereotipi e caratterizzazioni molto marcate che prende spunto dalle vicende storiche per andare però oltre. Anche la scelta di mettere come tatuaggi sulle braccia degli ex detenuti tutti numeri superiori a 202.499, il più alto mai assegnato, è da intendere come andare oltre la Storia per raccontare un’altra storia.

Gli elementi stilizzati e fumettistici che pervadono personaggi e dialoghi sono l’elemento caratterizzante di Hunters. Questo comporta che il modo di parlare sia colmo di battute dal gusto troppo moderno per l’ambientazione in scena. Ma il risultato è comunque gradevole. La vivacità degli scambi di battute danno ritmo alla narrazione. Le cadute in cliché nei momenti drammatici e nel pop in quelli dinamici sono ascrivibili all’inesperienza dello stesso Weil, ma possono essere facilmente perdonate per lo stesso motivo. Il ragazzo è giovane, ma si farà.

Il vortice pulp nel quale ci catalizza è comunque avvincente. Non solo l’azione, ma soprattutto il coraggio di osare.

Hunters

Ogni nazista che viene incontrato dagli Hunters ci viene esplicato con efficaci flashback che sottolineano ogni elemento caratterizzante la loro particolare mostruosità nei campi di concentramento.

Fotografia e regia soffrono di qualche ingenuità di troppo, soprattutto nell’episodio d’apertura, nella ricerca costante di originalità, ma anche questo aspetto può essere facilmente migliorato con la prossima stagione facendo tesoro dell’esperienza acquisita. Una nota di merito va indubbiamente ad Al Pacino che si muove per la prima volta sul piccolo schermo in un personaggio che pare pensato esattamente per lui. A volte però la sua enorme presenza scenica, la sua eleganza e ironia adombrano gli altri elementi del cast invece che valorizzarli. Ci si aspetta sempre qualcosa in più dal suo personaggio come se il semplice fatto che a dargli corpo e anima ci sia il leggendario attore giustifichi una spasmodica attesa di un qualcosa che potrebbe non essere necessario.

Amazon Prime Video ha tra le mani un ottimo prodotto con un potenziale enorme. Se saprà farlo gestire con maggior sapienza ed esperienza ci troveremo di fronte a una svolta decisiva per la casa di Jeff Bezos, che potrebbe finalmente segnare un altro punto importante nell’agguerrita battaglia delle serie tv.

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