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House of Cards: tanti saluti al “politically correct”

 

Tredici puntate da vedere tutte d’un fiato o da centellinare come un vino pregiatissimo? Questa la difficilissima scelta di ogni fan di House Of Cards, serie che in America, grazie al colosso on-demand Netflix, è già uscita nella sua interezza e che in Italia Sky Atlantic propone ogni settimana con due episodi, sia in lingua originale con sottotitoli in italiano che doppiati.

Gli orfani di Francis hanno finalmente smesso di aspettare per una terza stagione attesissima e che si preannunciava essere ricca di nuovi elementi (soprattutto vedendo come era terminata la seconda…), ma, qualora non siate ancora degli orfani di Francis, cercheremo di spiegarvi (senza spoiler, promesso) alcune buone ragioni per lanciarvi in una megamaratona di recupero e rimettervi al passo, ovvero perché House of Cards è un must assoluto.

Ispirata ad una miniserie televisiva prodotta dalla BBC nei primi anni ’90, House of Cards non è una semplice serie basata su intrighi, trame e complotti per il potere, è molto di più. Nelle prime puntate, la cosa più complicata a cui abituarsi è il meccanismo del sistema politico americano, quanto più diverso possibile da quello che conosciamo, ma la situazione, anche per un neofita di politica statunitense, migliora con il passare degli episodi. Altra caratteristica che differenzia questa serie rispetto al panorama medio americano è il ritmo, un po’ lento ma godibile: i colpi di scena vengono preparati con cura e serviti, come la vendetta, freddi, ma, proprio grazie a questo, riescono ad essere di grandissimo impatto.

L’intera architettura del plot si basa sulla sete di vendetta e fame di potere di Francis J. Underwood, leader della maggioranza democratica al Congresso degli Stati Uniti, interpretato da uno straordinario Kevin Spacey (Premio Oscar per “I Soliti Sospetti” e “American Beauty“), che riesce a dar vita, voce e movenze a un personaggio spietato e controverso ma (quasi) mai sopra le righe. Accanto a lui, due donne, la moglie Claire, interpretata da Robin Wright (La Leggenda di Beowulf, Millennium – Uomini che odiano le donne) e la giornalista Zoe Barnes, che nella serie ha il volto di Kate Mara (American Horror Story: Murder House). Queste due figure femminili potrebbero sembrare estranee dal mondo di Frank Underwood, ma con lui condividono l’ambizione, la necessità di emergere, di essere potenti.

In questo senso, House of Cards può essere visto anche come una storia d’amore sui generis, amore non verso qualcuno ma verso uno status da raggiungere ad ogni costo, senza preoccuparsi di eventuali danni collaterali. L’amore vero e proprio ha uno spazio importante e, in certi frangenti, decisivo nella serie, soprattutto visto attraverso gli occhi di Claire, a volte combattuta tra la ricerca di passione e l’amore “sacrificabile” per uno scopo considerato più alto. Non mancano le “captatio benevolentiae” nei confronti dello spettatore: memorabili sono le frasi che Frank Underwood rivolge allo spettatore, quasi a voler giustificare le sue azioni e i suoi comportamenti o a voler offrire il suo punto di vista per renderlo giusto e condivisibile anche agli occhi di chi sta guardando. Altro personaggio importantissimo è quello di Doug Stemper, interpretato da Micheal Kelly (I Guardiani del Destino, Person of Interest). Sodale e amico di Frank Underwood, è il suo uomo di maggior fiducia, a cui Frank si affida spesso per il vecchio classico “lavoro sporco”. Il personaggio di Doug è, con ogni probabilità, quello che si evolve maggiormente nell’arco delle prime due stagioni della serie per via del modificarsi del suo modo di vedere il mondo, atteggiamento che lo porterà anche a prendere delle decisioni non sempre volte al bene del suo capo. Aggiungete a questi già succosi ingredienti una dose abbondante di dissacrante ironia e cinismo e otterrete la ricetta del “political drama” per eccellenza. In tre parole, House of Cards.