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Game of Thrones 4×06 – La confessione di un innocente

Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler sul sesto episodio della quarta stagione di Game of Thrones

Il giudice stava dall’altra parte. Stava ovunque, in quella stanza. In ogni tempo, nella vita di un nano. L’arbitro in terra del bene e del male aveva emesso la sentenza fin dal suo primo vagito. Un arbitro incorporeo, senza voce né anima: lo spirito di un mondo chiuso dentro se stesso, nel quale la forza fisica è l’unico linguaggio possibile. Il potere l’unico vero fine dei protagonisti di un teatro dell’assurdo, la sopravvivenza l’unica realistica ambizione per i più. L’arbitro si era espresso, al fischio d’inizio: il nano era colpevole d’essere un nano. E per questo andava esiliato, messo ai margini della società, zittito, soffocato. Perché no: ucciso, se necessario.

Questa è la storia di Tyrion Lannister, il reietto. E di un episodio straordinario, tra i più indimenticabili di Game of Thrones, il sesto della quarta stagione. In cui nani e ballerine si scambiarono i ruoli per un processo dai tratti farseschi, in cui il vero capo d’imputazione è implicito.

Non il regicidio di Joffrey, del quale è ingiustamente accusato. Ma l’essere, solo, Tyrion Lannister. Il nano, il mostro. L’essere deforme dall’animo gentile – seppur non certo privo di macchie – che niente aveva a che fare col brutale microcosmo di Approdo del Re. Nessun atto aveva spostato in alcun modo le valutazioni, nessun atto valoroso aveva riscattato il fardello che agli occhi di tutti rappresentava. Non l’essere un degnissimo Primo Cavaliere, in vece di un padre indegno che vedeva nei suoi occhi un’onta dinastica e la fine dell’amata Joanna, morta nel momento in cui lo stava partorendo. Non l’aver salvato la capitale dall’assalto di Stannis Baratheon, con la statura di un vero re. Non l’aver fatto propria ogni responsabilità che un cognome tanto ingombrante portava con sé. No, non bastava mai. Tyrion, nonostante tutto, rimaneva solo il nano. E per questo andava condannato dalla propria famiglia, dall’ipocrita corte di lacchè e dal popolino rumoroso che mormorava mentre lasciava dietro di sé tracce di fatali coltellate al cuore.

L’accusa era un pretesto, un vile pretesto: molti di loro, giudici irrequieti e sadicamente lucidi, sapevano che Tyrion non avesse davvero ucciso Joffrey. Chiunque lo conoscesse, anche poco, aveva un’idea chiara del fatto che non avrebbe mai agito in quel modo. E chi, in realtà, non sapeva se potesse averlo fatto o meno, si disinteressava alla scoperta della vera natura delle cose. In Game of Thrones non c’è spazio per la giustizia terrena: quel che più conta è agire per un fine personale, piegare la verità alle proprie esigenze e perseguire una narrazione in cui individuare un capro espiatorio e – possibilmente – guadagnarci qualcosa. Succede allora che Tywin guardi tutti dall’alto verso il basso e colga la palla al balzo per non uccidere quello che resta pur sempre suo figlio, farlo esiliare verso la Barriera e ottenere, allo stesso tempo, un erede, Jaime, del quale aveva disperatamente bisogno per portare avanti il nome dei Lannister. Chi se ne frega della giustizia: il metro morale del vecchio leone si sovrappone perfettamente a quello degli austeri burocrati della Banca di Bravoos che compaiono nel medesimo episodio, per i quali il profitto va oltre ogni possibile valutazione su chi sia o meno un ladro o un usurpatore.

La giustizia è un concetto vacuo, il delirio di un visionario. La sterile retorica d’un folle o di una regnante come Daenerys che, costretta a fare i conti con la complessa gestione dell’appena conquistata Meereen, non conosce il senso della misura, l’equilibrio d’una bilancia: la sua prospettiva assolutista si colora di buone intenzioni per poi macchiarsi col sangue di chiunque paghi per le sue azioni al di là di ogni possibile responsabilità individuale. Anch’essa arbitro in terra del bene e del male, ricerca una qualche giustizia sommaria senza conoscere risposte alternative alla propria visione del mondo e delle cose. Non si domanda nemmeno cosa possa essere davvero giusto o sbagliato, ben prima della strage che la vedrà protagonista – anni dopo – ad Approdo del Re: la risposta, al di là dell’imponderabile scorrere degli eventi, è sempre stata nella sua testa. Anche se non è mai stata, con ogni probabilità, quella più adeguata.

Le varie sottotrame di The Laws of Gods and Men, apparentemente disconnesse, sembrano quindi convergere in un’unica direzione e invadere i confini del tribunale nel quale viene processato Tyrion Lannister. La sala del trono, il palcoscenico ideale per dar vita a una simulazione dall’esito scontato, in cui cancellare dalla memoria la vergogna dell’aver condiviso uno spazio vitale con un ignobile nano. La maldicenza quindi insiste, batte la lingua sul tamburo, fino a dire che un nano è una carogna di sicuro. La verità viene distorta, capovolta, devastata dalle arbitrarie testimonianze di chi persegue una vendetta personale. Persino raccontata, scorrettamente: spogliate d’ogni contesto, le parole passate di Tyrion gli si ritorcono contro per capovolgere la realtà e assoggettarla al volere dell’arbitro corrotto.

Solo Jaime si schiera dalla sua parte. E, senza che lui potesse ancora saperlo fino in fondo, Varys. Un fratello e un amico, gli unici in grado di osservarlo dalla medesima prospettiva, scendendo dal piedistallo in cui il resto della platea si era famelicamente assiepato. E sarebbe persino stato sufficiente per salvarlo, dopo averlo sottoposto a un’ignobile umiliazione in pubblica piazza. Ma Tyrion non cercava un’assoluzione né un’approvazione. E accettare una condanna ingiusta sarebbe stato un atto d’amore, nei confronti dei pochi che gli volevano bene. Fino a quando una donna, la donna che lo amava, l’ha tradito. E dopo le notti insonni, vegliate al lume del rancore, Tyrion è esploso. Confessa, facendosi giudice. Non per ritorsione, ma per un atto di benevolenza verso se stesso.

Non al denaro, non all’amore né al cielo: l’invettiva che Tyrion scaglia nei confronti del suo giudice è destinata al riscatto del proprio nome. Il ruggito dell’unico vero leone, il riposizionamento di una verità sopita e di una realtà che riassume i giusti contorni. Tyrion, in un attimo, si trasforma in un gigante: un mostro, lucido. Umano, nel fare terra bruciata intorno a sé. Senza più arrendersi all’evidenza di una sentenza che non riguardava in alcun modo quel che aveva fatto nel corso della sua vita, ma aggrappandosi al volere degli dei. La statura di Tyrion, allora, non dispensa più dal buonumore, nel momento in cui riesce a guardare tutti dall’alto verso il basso, senza per questo piegarsi al bruto sussurro della vendetta.

Perché no, Tyrion non è il giudice di De André che abbiamo evocato nell’arco di tutto il pezzo, sebbene affidare il padre Tywin sarà un piacere del tutto suo. No: Tyrion, a differenza sua, svestirà la toga nell’esatto momento in cui lascerà quella terra ingrata.

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Lo capiremo anni dopo, al tramonto della straordinaria avventura di Game of Thrones. Quando Tyrion tornerà a casa, una casa mai stata sua, e avrà l’opportunità di trasformare se stesso in un vile carnefice. E la propria anima in un giudice spietato che non conosce altre virtù al di fuori dell’umana rivalsa. Ma no, Tyrion non è il giudice, l’arbitro in terra del bene e del male: Tyrion è altro, svetta sui vizi di una società allo sfascio e cercherà ancora di salvare quella maledetta città di irriconoscenti, assaltata dal fuoco di una regina in cui smetterà di credere troppo tardi. No, Tyrion non è il giudice. Non lo sarà mai, lascerà sempre l’onore e l’onere a qualcun altro, con la serenità di chi ha imparato ad accettare se stesso fin dal momento in cui è nato. Sa quanto possa esser triste ritrovarsi adulti senza esser cresciuti, sa cosa voglia dire avere un metro e mezzo di statura. Trasformare l’apparente vizio in una virtù, la debolezza in una forza. Guardare tutti dall’alto verso il basso senza manco avere l’arroganza di farlo. Perché lui, lui sì, conosce la statura degli Dei. E non avrà mai il cuore vicino, troppo vicino, al buco del c**o. Lui, a differenza di chiunque si sia messo in testa, anche solo per un momento, di condannarlo. Al di sopra delle leggi. Ben al di là della decenza.

Antonio Casu