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Il film del mese: Vacanze romane

Sono tantissimi i film indimenticabili nella storia del cinema; quelli che non invecchiano col passare del tempo e che non ci stancheremmo mai di vedere. Hanno una padronanza tecnica tale da spiazzarci, dando vita a personaggi iconici, trame avvincenti e messaggi profondissimi. Così, evocano in noi emozioni pure, si fondono con i nostri ricordi, ci fanno provare esperienze che ci cambiano da dentro. Dimostrando che sì, i film contano. E, se molto è legato al gusto soggettivo, ci sono delle pietre miliari che mettono d’accordo tutti. Allora, ogni mese dedicheremo una recensione approfondita a un cult intramontabile, scolpito nella memoria collettiva e così significativo da essere ancora oggi attuale. E la scelta, stavolta, è caduta sull’indimenticabile Vacanze romane.

Roma era a pezzi, distrutta e ferita a causa della guerra e così il Neorealismo ce la presentava: come una città aperta, piena di ladri di biciclette. Aveva bisogno di ritrovare il suo spirito fiabesco e solare, che il conflitto le aveva portato via. Ci pensò William Wyler a esplorare, con inquadrature uniche e sensazionali nel suo Vacanze Romane, la capitale italiana degli anni ’50, mostrando le sue bellezze artistiche inestimabili, la poesia dei suoi paesaggi, il suo charme inconfondibile e la sua dirompente voglia di vivere. Certo, la sua visione è tipicamente americana, ma per questa volta possiamo perdonarlo. Anche perché è grazie a Wyler che Roma venne soprannominata la “Hollywood del Tevere”, attirando sulla strada di Cinecittà professionisti da tutto in mondo.

Vacanze Romane è, infatti, una delle pellicole più importanti della nostra cinematografia, pur non appartenendo a essa.

Lo stesso Wyler si oppose alla scelta della Paramount di girare a Hollywood, insistendo nell’andare in loco. D’altronde, come disse il regista, “non si può ricostruire il Colosseo o la scalinata di Piazza di Spagna”. Richiesta che venne accolta, ma a fronte di una consistente riduzione del budget che portò alla rinuncia del Technicolor (anche se il bianco e nero l’ha reso ancor più romantico) e a puntare sull’allora giovane e sconosciuta Audrey Hepburn. Il cui provino fu incredibile: una volta che finì la sua scena, Wyler le chiese di continuare per osservare l’attrice in veste più rilassata, riuscendo a convincere tutti. Dunque, niente Elizabeth Taylor o Jean Simmons; niente Cary Grant nei panni di Joe Bradley, parte affidata a Gregory Peck. E possiamo affermare a gran voce che mai scelte furono tanto azzeccate.

Vacanze romane

Così, in quella Roma caotica, vera e vitale, Wyler rilegge la favola di Cenerentola invertendone i ruoli e regalandoci un romanticismo nuovo e alternativo.

Fino a quel momento, la figura della Principessa era idealizzata e rappresentata come l’obiettivo di una vita. Insomma, possiede vestiti stupendi e una dimora magnifica, ha un marito ricco e potente e non deve occuparsi dei figli o della casa, perché ci pensa la servitù, intenta a soddisfare ogni suo desiderio. Anna, però, dimostra fin da subito quanto questo ruolo le stia scomodo, dato che ogni cosa nella sua esistenza è controllata nei minimi particolari, non può sottrarsi alle decisioni della sua famiglia e ha così tanti impegni istituzionali da sfinirla, non avendo un minuto libero per sé. In più, se si ribella, viene addirittura sedata. Ed Hepburn, bellezza acqua e sapone e icona di eleganza, è semplicemente perfetta nel ruolo di principessa annoiata che scappa dal suo castello-prigione per assaporare qualche ora di libertà. Iniziando a mettere il primo mattone del suo mito proprio con Vacanze Romane.

L’anticonformismo di Anna si manifesta già con quella scomoda scarpa che le si scalza dal piede, simbolo di un ruolo che le sta stretto e dell’inganno favolistico che domina Vacanze romane. Lei diviene Cenerentola sì, ma non indossando una calzatura, bensì togliendola; ha persino la sua carrozza-zucca, ovvero quel furgone del catering che la porta verso la felicità; infatti, il saluto meccanico e annoiato nella cerimonia di corte si trasforma in allegro e festante nei confronti del popolo romano. Sarà un principe azzurro atipico, che prima vorrebbe sfruttarla con l’amico fotografo Irving – la linea comica del film, interpretato magnificamente da Eddie Albert – ma poi si innamora di lei, a condurla in strade dove non sarebbe strano veder apparire il Cappellaio Matto. Perché Anna è anche un Alice che viaggia nel Paese delle Meraviglie e, guarda caso, corrisponde proprio alla nostra bellissima Italia.

Piano piano nasce un sentimento tra loro, reso ancor più potente dalla grandissima chimica tra Hepburn e Peck, con quest’ultimo che, talentuosissimo, ha un magnetismo tale da perforare lo schermo. Iconica è la storia che si cela dietro alla scena della Bocca della Verità (che da allora è entrata negli itinerari di ogni turista) in cui Peck improvvisò fingendo di aver perso la mano, con la reale reazione di Hepburn che venne inserita nel film.

Ecco cosa celebra Vacanze romane: la bellezza della semplicità e dei piccoli gesti, come mangiare un gelato, parlare con degli sconosciuti, sedersi in una piazza o sfrecciare sulla Vespa davanti al Colosseo in una scena che non solo ha reso famoso il mezzo globalmente, ma che è rimasta nell’immaginario comune del cinema mondiale. Anche tagliarsi i capelli per non avere più il solito aspetto rassicurante, trasformandola in una delle azioni più associate al cambiamento e segnando una svolta nelle acconciature femminili dell’epoca. È anche un elogio alla vita modesta e felice delle persone comuni, opposta ai doveri e alle limitazioni dell’essere ricci e nobili. Perché Anna sarà costretta a rinunciare all’amore. A tornare Principessa e a un’esistenza in cui il sentimento sembra non trovare collocazione.

Vacanze romane, però, non è solo la storia di un’estiva giornata italiana fuori dall’ordinario e di un amore sbocciato tra i vicoli di Roma.

È un racconto di formazione in cui la curiosità di Anna verso il mondo popolare, così lontano dal suo, rappresenta il desiderio di relazionarsi con il diverso, per conoscerlo e comprenderlo, arrivando allo stesso tempo a conoscere sé stessa a un livello più profondo. Grazie a questa giornata, la sua mentalità cambia e riesce ad affermare il suo punto di vista nella conferenza stampa che chiude Vacanze Romane, di fronte a molteplici giornalisti che, per chi non ne fosse a conoscenza, erano realmente dei reporter. Ma l’opera di Wyler si amplia parlando di libertà, del peso e delle conseguenze delle scelte, della responsabilità e, ogni tanto, del prendere gli avvenimenti con leggerezza. C’è anche un pizzico di satira nel modo in cui viene trattata Anna, ovvero come una bambina di cinque anni, e nel fatto che gli agenti dei servizi segreti non riescono minimamente a passare inosservati né a compiere la loro missione.

E sarà formativo anche per Bradley, che riesce a trovare la felicità con questa principessa, pur sapendo nel suo cuore che ha una data di scadenza. Che a mezzanotte la zucca tornerà carrozza. Ma è sufficiente questo giorno di pura gioia per rileggere la sua vita. Come Anna, viene messo a nudo in questa storia d’amore che gli fa riscoprire il valore di ciò che è davvero reale, comprendendo pure quanto le sue azioni da giornalista arrivista fossero sbagliate. E lo esprime, assieme al suo amore, in quell’ultimo loro incontro, dove gli sguardi dicono più di mille parole.

Del resto, da Dalton Trumbo non ci si poteva aspettare un film senza un sottofondo così significativo. Ricordiamoci che siamo in Guerra Fredda e lo sceneggiatore, noto per grandi cult come Spartacus di Stanley Kubrick, fu inserito nella lista nera a Hollywood per essersi opposto al maccartismo e aver, dunque, simpatizzato con il comunismo. Ciò non gli impedì di vincere un Oscar per il soggetto di Vacanze Romane (aggiungendosi a quello dei costumi e dell’attrice protagonista alla Hepburn), ma gli venne riconosciuto solo in seguito poiché non potette inserire il suo nome nei titoli: fu lo scrittore Ian McLellan Hunter a firmarlo, accettando di prestare il suo nome a Trumbo. Inoltre, la sceneggiatura vede anche l’opera dei nostri Suso Cecchi D’Amico (nome d’arte di Giovanna Cecchi D’Amico) ed Ennio Flaiano: si sente il loro umorismo e quell’abilità tutta italiana di curare momenti di grande significato sociale.

Il soggetto di Trumbo trova perfetta realizzazione nella visione di Wyler: elegante, ricercata e che controbilancia il frenetico caos di una Roma spensierata, profonda e sempre in movimento. Attento a non tirare troppo per le lunghe le situazioni, interrompendole prima che diventino insopportabilmente melense, l’aspetto sentimentale, infatti, occupa solo una parte del suo film, il che fa risaltare ancor di più l’amore tra Anna e Bradley. La sua regia efficacissima gioca da subito a carte scoperte sia nel sottolineare la noia degli eventi nobiliari ufficiali grazie alle dissolvenze incrociate, sia nel modo in cui scandisce, come fosse un coreografia di ballo, la sequenza di pugni, flash e chitarre spaccate a Castel Sant’Angelo. Del resto, la sua tecnica ha fatto storia, soprattutto nel modo innovativo in cui riprende la Vespa nel traffico.

È facile, dunque, comprendere perché Vacanze Romane sia l’archetipo delle commedie romantiche, contribuendo a rendere Hollywood il centro del cinema mondiale e a costruire il linguaggio stesso della settima arte: è un mix di romanticismo, umorismo, grazia, profondità e sobrietà, con la sceneggiatura che esalta ogni singola scena, un’attenta regia e una brillante interazione tra i personaggi. Non è una pellicola scontata, non fa del buonismo da quattro soldi la sua chiave di lettura, ma trova forza nel folklore popolare, nella scoperta di un nuovo mondo, in una storia d’amore nata per caso. Wyler riesce a renderlo molto di più della fiaba che avrebbe realizzato Frank Capra – che ne aveva acquistato la sceneggiatura ma, a causa di problemi economici e dello scandalo Trumbo, la vendette alla Paramount. Esprime l’importanza dell’attimo, dello scoprirsi e della chiusura, molto più fondamentali di qualsiasi happy ending. Come dicono due linee iconiche:

Anna: “E a mezzanotte, me ne tornerò, simile a Cenerentola, là da dove sono evasa.”

 Joe: “E sarà la fine di una bella favola”

Perché questa è la realtà dove la Principessa rimane tale e non sposa il povero giornalista. E, nonostante ciò, è ancora capace di farci sognare come pochi altri film al mondo. Anche dopo settant’anni.

Il film del mese scorso: Viale del tramonto