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9 Film che non mi stancherò mai di rivedere

Le serate a tema cinema sono da sempre il mio momento di pace più assoluta, la parte preferita della mia giornata. I cult da vedere e scoprire per fortuna sono infiniti, e questo mi aiuta nel trovare sempre un capolavoro da guardare per la prima volta. Negli anni mi sono innamorata di Federico Fellini, Michelangelo Antonioni, Lanthimos. Mi sono innamorata di Tarantino, Wes Anderson. Mi sono innamorata, solo qualche anno fa, di Paul Thomas Anderson, di Mullholland Drive di David Lynch, di Lost in Translation, Di Godard, Gaspar Noè. Per farla breve, quando si tratta di cinema, io mi innamoro ogni giorno. Per cercare di non cadere mai nell’abitudine, cerco di non guardare troppo spesso i film di cui sono innamorata, ma alla fine con il tempo mi sono resa conto che esistono delle eccezioni, dei film che – per ragioni differenti – continuo a guardare e riguardare senza mai perdere quella luce e quello stupore che caratterizza le prime visioni. Questo meccanismo non scatta perché queste determinate pellicole sono per me più belle di altre, ma perché continuano a restituirmi qualcosa per cui alla fine ogni volta rimane sempre la prima. In alcuni casi come in quello di Parasite la ragione sta nel fatto che i dettagli nascosti all’interno del film non possono essere colti con una semplice prima o seconda visione, in altri come in Juste la fin du Monde il discorso invece è ben diverso, e ha alla base una sola valida motivazione: Xavier Dolan.

Ci sono giorni in cui cerco ovunque qualsiasi nuovo film da vedere per la prima volta, ma ci sono giorni in cui – invece – riguardo tutto ciò di cui mi sono già innamorata, e mi innamoro di nuovo

1) Juste la Fin du Monde – Xavier Dolan

Juste la Fin du Monde (640×360)

La gente pensa che chi non parla è bravo ad ascoltare. Ma io sto zitto perché la gente mi lasci in pace.

C’è stato un momento in cui la critica ha davvero capito che regista fosse davvero Xavier Dolan. Attraverso Mommy qualcosa si era finalmente cominciato a smuovere restituendogli ciò che meritava, ma il suo vero capolavoro porta il nome di Juste la Fin du Monde. Distribuito nel 2016 e con un cast d’eccezione, la pellicola racconta una storia che, non appena ti conosce, poi non ti lascia più. Ho amato ogni singolo film di Dolan, ma non ho mai visto nessun altro suo film così tante volte come in questo caso. Forse il mio amore incodizionato nei confronti di questa pellicola è dettato dalla sua delicatezza, dalla consapevolezza che quel coraggio così limitato che appartiene al protagonista appartenga anche a me, forse è dettata dal fatto che quei 95 minuti si basano su comunicazioni distorte che sfociano in un non detto che, nel paradosso, riesce a dire più di qualsiasi altra cosa. Sono d’altronde i silenzi a rendere soffocante quella casa in cui si sviluppa l’intera storia, sono d’altronde quei momenti di caldo afoso a ricordarci ancora una volta il senso di soffocamento che il personaggio di Louis sta vivendo sulla sua pelle. Juste la Fin du Monde continua a essere, ancora oggi, il film di Xavier Dolan che guardo ogni volta come se fosse la prima, a volte sperando perfino incosciamente che qualcosa cambi, e che alla fine lui si liberi.

2) Aftersun – Charlotte Wells

Aftersun (640×360)

A volte mi capita di guardare il cielo, e se riesco a vedere il sole penso che entrambi possiamo vederlo. Così, anche se non siamo realmente nello stesso posto e non siamo realmente insieme, è come se lo fossimo in un certo modo.

E’ arrivato da poco, ma io l’ho già visto e rivisto. Una volta sola per questi film non basta mai, non ne basta neanche una seconda. Fin dalla prima visione avevo colto la grandezza di questa meraviglia firmata Charlotte Wells, ma le successive visioni mi hanno portata a cogliere davvero la sofferenza silente del padre. Per tutto il film sta zitto, parla poco. Ride solo con sua figlia, ride solo per sua figlia. Non fa di più. A volte crolla, ma solo quando sa di esser solo. Per tutto il resto del film finge una serenità che ha già perso da tempo, o che forse non ha mai avuto. Aftersun è d’altronde una lettera d’addio, una saluto definitivo che un padre e una figlia si danno senza sapere che lo sia. Quando lo riguardo cerco di capire se da qualche parte ci fossero dei segnali evidenti in questo senso, e ogni volta ne scovo qualcuno che mi fa chiedere come mai non ci avessi fatto caso prima. Aftersun è un film da interiorizzare, da capire. Un film in cui un viaggio padre-figlia diventa teatro di un saluto, dell’ultima occasione per attaccarsi alle spalle apparentemente forti di qualcuno che, prima di andare via, fa un utimo ballo.

3) La Grande Bellezza – Paolo Sorrentino

La Grande Bellezza (640×360)

Quante certezze, Stefà. Non so se invidiarti o provare una forma di ribrezzo.

Quando si tratta di Paolo Sorrentino io non conosco limiti. La sua mano per me è quasi dorata, e la mia netta preferenza si fa sentire già quando qualcuno prova a dirmi che lui sia in realtà un po’ sopravvalutato. Ma tra tutti i suoi capolavori (ha forse mai sbagliato un film?) ne spicca uno che, come suggerisce il suo stesso titolo, possiede una grandezza che non può essere messa da parte con tanta facilità. La Grande Bellezza non è un film di Sorrentino: La Grande Bellezza è IL film di Sorrentino. A prescindere da qualsiasi premio Oscar, la pellicola girata a Roma continua a essere ancora oggi uno dei miei punti saldi del cinema italiano del duemila, il momento in cui riesco a confondermi con la realtà e l’immaginazione di una pellicola che sembra quasi distopica. Il valore del niente(forse simile in un certo senso a quello che ritroviamo in Parasite) ne La Grande Bellezza si impone come protagonista indiscusso e mette il protagonista nella condizione di tornare indietro nel tempo e ricordare la differenza tra cosa ti spinga a scrivere un libro e cose invece ti faccia cadere nel nichilismo deludente di una Roma così piena da essere vuota. Ogni visione mi permette di afferrare ancor di più l’insoddisfazione di Jep Gambardella riuscendo a cogliere in modo più chiaro i motivi che lo hanno portato a sprofondare nella sua condizione, andando così a cogliere in modo più significativo l’obiettivo di questo film che, nonostante i diversi riconoscimenti, rimane ancora oggi incompreso da molti.

4) La Migliore Offerta – Giuseppe Tornatore

La Migliore Offerta (640×360)

Tutto può esser simulato, Virgil: la gioia, il dolore, l’odio, la malattia, la guarigione. Perfino l’amore.

Giuseppe Tornatore, al pari di Sorrentino, ha scritto alcune delle pellicole più importanti di sempre, ma io continuo ancora oggi a guardare insistentemente La Migliore Offerta chiedendomi quale sia davvero il finale del film. Ogni cosa può essere simulata, e in questo senso Claire è stata una vera professionista, ma esistono dei punti interrogativi che ci portano a doverci chiedere se davvero tutto quello che abbiamo visto facesse parte di una simulazione. Le parole di Claire, soprattutto quelle dette all’orecchio di Virgil, riconducono a uno dei messaggi chiave del film: in ogni falso c’è sempre qualcosa di vero. E se ciò è reale, allora anche il Claire esiste qualcosa di autentico. Il finale della pellicola porta Virgil nel posto in cui pensa di poter ritrovare quell’autenticità che la realtà dei fatti gli ha portato via derubandolo non solo delle sue opere, ma anche di qualcosa che non puoi vedere ma che senti dentro. Il film ci lascia senza darci una risposta, ma la speranza di Virgil conferma in qualche modo che forse Claire si presenterà a quel tavolo avverando la speranza del protagonista. Ancora oggi guardo La Migliore Offerta come se fossi dentro a un museo, perdendomi tra i quadri di Modigliani e tra la realtà di un’esistenza che non sempre si rivela in modo reale e che, al tempo stesso, prescinde dalla lotta tra cosa sia vero e cosa invece sia falso.

5) Interstellar – Christopher Nolan

Parasite
Interstellar (640×360)

La legge di Murphy non significa che succederà una cosa brutta, ma che tutto quello che può accedere accadrà. E a noi questo non dispiaceva per niente.

Interstellar per me è sempre stato uno dei migliori film di Nolan, un film che andava oltre la meravigliosa logica dello spazio-tempo, un film che andava oltre qualsiasi cosa. Inception mi ha sempre fatto un certo effetto, ma dopo qualche visione è rimasto un bel ricordo, mentre Interstellar rimane ancora oggi un film che guardo e riguardo sempre con la stessa intensità. 2001: Odissea nello Spazio è il campo di battaglia su cui Nolan vuole approdare per giocare le sue carte, e le gioca. Eccome, se le gioca. Christopher Nolan è un regista che da sempre detta le regole, ma in questo caso ha deciso di seguire quelle dettate dal grande cult di Kubrick cercando di aggiungere alla storia un aspetto emotivamente struggente e imprescindibile: la natura dei sentimenti, la naturale protezione nei confronti di chi amiamo. Chi amiamo, d’altronde, c’è sempre. Interstellar lo ricorda, lo fa attraverso dei video guardati in posti in cui si è ovunque e da nessuna parte nello stesso tempo. Lo fa da dietro una libreria, lo fa quando la vita è passata ma per qualcuno sono trascorsi soltanto cinque minuti. Lo fa per tutta la durata del film, provando a raccontare qualcosa che non potrebbe morire mai neanche dopo milioni di anni. E ogni volta, alla fine, l’effetto che mi fa è sempre lo stesso. Ed è sempre meraviglioso.

6) I Tenenbaum – Wes Anderson

Parasite
I Tenenbaum (640×360)

Tutti i ricordi dei giovani Tenenbaum sono stati cancellati da due decadi di tradimento, fallimento e disastro.

La delicatezza di Wes Anderson conosce ben pochi paragoni. Il segno distintivo delle sue pellicole è d’altronde sempre stato questo, ma per me I Tenenbaum farà sempre la differenze. Ironico, sarcastico e con una comicità sporca che si fonde con la delicatezza: questo è film di Wes Anderson per antonomasia, questo è il genere di film che sa dire nel suo silenzio qualcosa di me. Rivedersi nelle pellicole non è raro, ma riconoscersi sì. Rivedersi significa individuare delle similitudini, riconoscersi – invece – è più pretenzioso e implica riconoscere qualcosa di totalmente nostro in un determinato personaggio o evento. Ogni volta che I Tenanbaum comincia la sua storia, io sono già pronta in attesa della sua scena per eccellenza, il momento esatto in cui la prima volta pensai che avrei rivisto questo film ancora per tante, tante volte: Margot scende dall’autobus sulle note di These Days, e da quel momento tutto cambierà. Sia per lei che per me.

7) Il Cavaliere Oscuro – Christopher Nolan

Parasite
Il Cavaliere Oscuro (640×360)

Io non voglio ucciderti. Che faccio senza di te? Torno a fregare i trafficanti mafiosi? No, no, no. Tu mi completi.

Dire Il Cavaliere Oscuro significa dire anche Heath Ledger. Dire Il Cavaliere Oscuro significa dire Batman nella sua essenza e sostanza più intensa. Il modo in cui Nolan ha portato in scena il suo personaggio è stato infatti impeccabile, un modo che per la prima volta mi ha fatto apprezzare questo tipo di mondo. Nella realtà dei fatti, Il Cavaliere Oscuro è per me Il film di riferimento di Batman, la regola base da seguire per far sì che questo tipo di produzioni possano diventare dei capolavori. La trilogia del regista di Interstellar non ha infatti mai sbagliato un colpo, ma il suo secondo capitolo è stato qualcosa di inimitabile. Il personaggio di Joker, per la prima volta, mi ha fatto fatto scavare nel mondo del villain per eccellenza, facendomi capire tutta la sua potenza. Da Nolan non potevo aspettarmi niente di diverso, ma non credevo che sarebbe riuscito anche nel farmi rivedere più volte un film appartenente a un genere da cui sono sempre stata lontana, e che adesso invece – tra le sue mani – è diventato una delle mie certezze.

8) Parasite – Bong Joon-ho

Parasite
Parasite (640×360)

Ki-woo, sai che tipo di piano non fallisce mai? Non aver mai alcun tipo di piano, neanche l’ombra. Sai perché? Se elabori un piano, la vita non va mai nel verso che vuoi tu. Guardati intorno, queste persone hanno forse pensato: Sarebbe una buona idea passare tutti insieme la notte in palestra? Ma guarda adesso, stanno dormendo tutti, noi compresi, sul pavimento. Ecco perché non si dovrebbe mai fare un piano. Se non hai un piano niente può andare storto, figlio mio. È così. Perché se qualcosa poi ti sfugge di mano in fondo poi non è tanto grave, sia se uccidi qualcuno o se tradisci il tuo paese. Niente di tutto questo ha importanza. Hai capito?

Parasite

Il mio amore per i film orientali è nato qualche anno fa grazie al meraviglioso capolavoro In The Mood for Love, un’altra perla che ho visto più volte. Negli anni è proseguito attraverso pellicole come Madre, Drive My Car, Old Boy e Parasite, il film che ha vinto un Oscar nella categoria Miglior Film Straniero. La mia esperienza con Parasite non è mai cominciata e finita nello stesso momento, anzi, si è protratta. L’ho visto un’infinità di volte: a volte da sola, a volte per convincere qualcuno a dare una possibilità al cinema orientale. In nessuno di questi casi la cosa mi è pesata. Paradossalmente, ogni nuova visione mi ha offerto la possibilità di cogliere per la prima volta dei dettagli che sono sempre stati sotto i miei occhi, ma che io non ero riuscita a vedere prima. Parasite significa parassita, ed è questo ciò che tutti i personaggi della pellicola sono. Si attaccano l’uno all’altro nella speranza di poterne risucchiare l’energia, le comodità. Cercano di giocare a nascondino strisciando da una parte all’altra della dimora da sogno protagonista di Parasite, mettendo così in atto la differenza tra l’apparenza e la sostanza. La villa di lusso così tanto perfetta diventa infatti presto teatro di squallore, povertà e perdita di qualsiasi forma di valore. Dietro tutto questo si nasconde l’ambizione di poter mantenere ciò che si ha o, al contrario, ottenerlo. Ma per farlo, i personaggi di Parasite perderanno loro stessi fino al punto di non ritrovarsi mai più.

9) La Casa di Jack – Lars Von Trier

Parasite
La casa di Jack (640×360)

La tua casa è piccola ma carina, Jack

Lasciamo Parasite e concludiamo con Lars Von Trier, uno dei registi più difficili da spiegare e raccontare. Forse alla base di questa difficoltà risiede la consapevolezza che in realtà Lars Von Trier non va spiegato, va vissuto attraverso le immagini che fa parlare. L’ho amato fin dal primo momento con Antichrist, e ho continuato ad amarlo con Melancholia e Nymphomaniac, ma se esiste un film che è riuscito a sorprendermi quando credevo di aver già toccato con mano la sua poeticità, quello è stato La Casa di Jack. Il mondo del thriller si è presto imposto con una base abbastanza solida: sappiamo sempre cosa aspettarci anche quando si tratta di grandi colpi di scena, ma La Casa di Jack è l’eccezione alla regola. Alla base di questa storia troviamo infatti Jack, un serial killer che pensa di creare arte attraverso i suoi omicidi. La regia di Lars Von Trier indaga dentro l’aberrante vuoto che l’uomo possiede andando a toccare argomenti come la religione e La Divina Commedia. Ciò che questo film mi ha riservato è andato oltre qualsiasi cosa potessi mai aspettarmi, e mi ha permesso di cogliere delle sfumature che non avevo ancora colto di questo regista che è riuscito a trasformare una storia thriller in un percorso che conosce un’unica direzione, e che – al posto della polizia – chiama in causa il Virgilio di Dante.

Parasite, Juste la Fin du Monde, Aftersun: tutti questi sono dei film che riguarderei all’infinito, delle pellicole di cui mi innamoro ogni volta come se fosse la prima, e che mi ricordano ancora una volta la potenza del cinema: anche quando i miei 25 anni saranno solo un lontano ricordo, io continuerò ancora a guardare il ballo di Aftersun sperando sotto sotto che non sia davvero l’ultimo.

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