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Tutto quello che ho imparato da Dark

Ci sono momenti che ci cambiano per sempre. Alcuni dolori non si dimenticano. Ma esiste un modo per sottrarsi a tutta questa terribile insensatezza

Dark

Uno dei paradossi più geniali di Dark è probabilmente la sua certezza nei confronti dell’esistenza della luce. Essa esiste a prescindere da qualsiasi cosa, anche a prescindere da noi. Per una Serie Tv che porta il titolo originale di Oscurità, questo paradosso – dopo aver preso visione delle tre stagioni – appare immediatamente assurdo, quasi impossibile. Perché ogni cosa in Dark appare oscura, priva di vitalità e avvilente tristezza. E’ così la città di Winden, e con questa anche chiunque la abiti. Non esistono personaggi solari. Non esistono personaggi soddisfatti o felici. Esistono soltanto protagonisti che si muovono da una parte all’altra della cittadina sperando che qualcosa, a un certo punto, possa aiutarli nel trovare un senso a tutto quel che sta accadendo. Molti di loro hanno perfino smesso di sperare. Nella maggior parte dei casi, sono rassegnati all’idea che tutto vada come deve andare sotto il controllo di chissà chi. Del tempo, della scienza, della logica o di qualsiasi altro potere che con forza muove le marionette di questa intricata storia. Per guardarla spesso si crede di dover ricorrere a schemi, linee temporali, aiuti da casa. Insomma, non sempre è semplice guardare Dark, soprattutto per quelli che, come me, l’hanno guardata fin dalla sua distribuzione aspettando un anno tra una stagione e l’altra. Ma nonostante le possibili difficoltà, mi ha accolta nella sua storia restituendomi tutto quello che spero sempre di trovare quando comincio una Serie Tv. Perché Dark mi ha abbracciata ai suoi paradossi e alle sue contraddizioni, restituendomi il ritratto più onesto dell’intricatissimo mondo dei sentimenti e dei legami umani.

Guardando Dark qualcosa l’ho capita, e non parlo soltanto della sua storia e dei suoi collegamenti. Parlo di tutto quello che ha a che fare con la vita vera, quella per cui le mappe concettuali non servono a nulla. Anche se ne avremmo tutti un disperato bisogno

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Dark (640×360)

La prima cosa che Dark mi ha insegnato, probabilmente, ha a che fare con la determinazione che devi mettere nei rapporti umani. Nella vita reale, e questo lo so bene, tendiamo a mettere da parte i legami per cose quasi futili, spesso superficiali. In Dark tutto questo non esiste. All’interno della serie tutti i personaggi cercano di coltivare i loro rapporti portandoli avanti nonostante qualsiasi cosa, nonostante perfino l’avversione che il tempo ha nei loro confronti. Rapporti padre figlio, rapporti sentimentali, rapporti familiari: non importa di che natura questi siano, ognuno dei personaggi cerca di tenersi stretto quel che ha anche se tutto minaccia di portarglielo via. E quante cose fanno per riaverli. Esattamente come fa Ulrich quando, internato in uno ospedale psichiatrico con l’accusa di aver commesso due omicidi, scopre che suo figlio Mikkel è nel suo stesso posto e nella sua stessa epoca. Il loro incontro diventa a tutti gli effetti uno dei momenti più intensi della serie, dimostrandoci ancora una volta quanto i sentimenti umani siano davvero il motore grazia al quale l’essere umano va avanti.

In Dark, d’altronde, non esiste mai alcuna teatralizzazione del potere e del controllo. Molti personaggi giocano la loro partita solo in base ai loro sentimenti, alla loro volontà di riuscire a riavere con sé chi non c’è più, colui che non si può più riavere indietro per le più disperate ragioni. Ma loro ci provano nonostante tutto, anche se le possibilità di riuscita sembrano pari a zero. Probabilmente Dark mi ha insegnato a non darmela a gambe quando un rapporto diventa più complicato. Mi ha insegnato a provare a rimanere, ad agire per cercare di fare qualcosa per salvarlo. D’altronde, sono riusciti a fare qualcosa perfino Jonas e Martha che, a un certo punto, scoprono di essere zia e nipote e poi di far parte di due universi opposti e due epoche differenti. Insomma, chi siamo noi per non tentare quando ne vale la pena?

<<Non devi mai smettere di sperare: la fuori c’è tanta oscurità ma altrettanta luce.>> Lo dice Jana Nielsen, riportandomi alla mente quel mastodontico finale di True Detective in cui Rust afferma che, nonostante tutto, la luce esiste. Non c’è soltanto l’oscurità, non c’è soltanto il buio. Lo dice lui, un personaggio pessimista che si muove all’interno di un ambiente degradado e quasi sempre cupo, un po’ come in Dark. Lo dice in una Serie Tv in cui richiami alla filosofia di Nietzsche sono presenti e perenni come nel caso della produzione Netflix grazie all’eterno ritorno, un concetto che presto nella serie diventa concreto grazie soprattutto alla presenza di cicli temporali fissi e all’utilizzo dell’uroboro, un serpente che inghiotte la sua stessa coda che simboleggia la natura che rinasce una volta raggiunta la propria fine. Dark, attraverso questi collegamenti, mi ha insegnato che ogni cosa è collegata, anche le Serie Tv. Se esistesse un universo solo, sono certa che in qualche modo Rust finirebbe all’interno di un episodio di Dark. Sarebbe come Ulrich, ma con probabilmente meno speranza di ritrovare il proprio figlio. Tutto è collegato, tutto può avere un filo conduttore, perfino quel che ci appare distante e completamente diverso.

Dark
Dark (640×360)

Dark mi ha insegnato la bellezza dei sentimenti, il coraggio che devi avere per investire in essi, ma anche a leggere tra le righe. Anche se le cose a un certo punto trovano una spiegazione, una delle particolarità più distintive di Dark è il suo modo di raccontarci la verità prima ancora che essa venga svelata. Molte delle risposte che cercavamo erano infatti di fronte ai nostri occhi, ma non riuscivamo a scorgerle. La vera sfida era riuscire non solo a guardare, ma anche a osservare, a trarre da quell’immagine qualcosa di più di un solo campo visivo. Era necessario farlo durante le sue tre stagioni, ed è necessario farlo ancora adesso che le luci del set si sono spente e noi dobbiamo camminare con le nostre gambe.

Guardare e basta non serve a niente. Serve soltanto al nostro occhio per registrare quel campo visivo. Dopo di che bisogna osservare, trarre qualcosa capace di tirarci fuori dal tunnel della superficialità, aiutandoci così a comprendere, viaggiare, andare oltre con la nostra mente, il mondo in cui più spesso ci ingabbiamo e che diviene per noi sia la nostra gabbia che la nostra chiave per andar via. Nella nostra testa sono presenti sia le nostre più temute prigioni che le nostre uscite di emergenza. Sta a noi decidere che cosa fare, ma non possiamo far nulla se guardiamo soltanto, rischiamo solo di non osservare quella porta che ci potrebbe condurre all’uscita.

In modo a volte sottile e altre volte didascalico, Dark mi ha insegnato tutto questo dimostrandomi che possiedo il potere di agire, di guardare oltre, di amare. Mi ha dimostrato che la mia vulnerabilità è la mia parte migliore, una parte da cui non devo scappare necessariamente. Accettare la propria natura, anche se è fragile, è un primo passo. Tutto il resto, poi, vien da sé, se riesco ad aiutarlo. D’altronde, non siamo qui a parlare di destino, ma di scelte, del modo con cui un essere umano possa aiutarsi. In Dark ogni cosa è presente, ma finché i protagonisti non fanno il primo passo questa non si compie. E’ una naturale condizione umana, una condizione che Dark mette al primo posto nella sua narrazione, e che diventa presto il motivo della sua potenza, della sua intelligenza emotiva e non. Sono solo tre stagioni, sono legami familiari e legami temporali, sono logicità e irrazionalità, testa e istinto, ma sono vita, quella vera. Quella che Dark con delicatezza ci ha raccontato fin dalla sua prima stagione, dando vita a un viaggio che che, anche se assurdo, mi ha insegnato qualcosa di cui ho imparato a fidarmi nel tempo, facendomi ritrovare adesso forse un po’ più felice di ieri.

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