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White Bear (Black Mirror) cela l’empatia ed esalta la colpa

La calma del risveglio disturbata da frequenze fastidiose e intrusive. Ogni giorno, come un incantesimo brutale e meccanico. Non si stancano mai, le cancellano la memoria costantemente per farle rivivere l’inferno. Da quando ha compiuto l’efferato crimine la sua vita non ha più una storia, solo ricordi incatenati a un’amnesia indotta. White Bear di Black Mirror è la conferma di quanto sia difficile affrontare il tema della giustizia.

Quanto è difficile affidare un’etichetta a degli esseri umani. Chi sia la vittima e chi il carnefice è forse la cosa più difficile da decidere, a volte impossibile, come in questo caso. Ancora una volta Black Mirror è lo specchio nero dell’umanità, corrotta dai pensieri e dai diritti che si pretende di avere.

A fare da legame con le altre puntate della serie c’è sempre la tecnologia, questa volta usata come sorta di legge del contrappasso per la protagonista. Gli schermi non causano nulla, se non umiliazione. Vengono utilizzati come strumento di invisibilità e giustificazione. Esattamente il mezzo adatto per sembrare nascosti dalla realtà, come giustificati nel riprendere la paura e la disperazione. Alla fine dei conti il White Bear Justice Park è un tour degli orrori che ha lo scopo di intrattenere chi lo vive a metà e terrorizzare la vittima, inerme, ignara e stordita.

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Con il tempo la puntata si deumanizza, diventa tutto troppo strumentale e insensato. Arrivati alla fine, tutto è diventato fin troppo assurdo che l’inizio così reale ormai non ha più senso. Davvero il compromesso che viene raggiunto per essere in pace con se stessi è l’umiliazione. In misura ridotta riflette la tendenza naturale dell’essere umano come animale, primeggiare annichilendo il nemico. Qui però non c’è inibizione dell’istinto e anzi ritroviamo lo stesso impulso animale innalzato a violenza legalizzata.

Nonostante il microcosmo di Black Mirror si presenti sempre come lontano dalla realtà contemporanea, non riusciamo mai a essere tranquilli durante la visione di una puntata. L’angoscia e l’inquietudine che viviamo solitamente e che abbiamo vissuto in questo episodio è comunque un elemento importante. È la risposta fisiologica che ci convince ad avere paura e che ogni volta ci fa riflettere.

In questo caso la domanda legittima che viene da porsi è: chi può essere veramente in grado di giudicare l’azione di qualcuno, quale punizione bisogna mettere in pratica? E tutto questo porterà poi a qualcosa di molto peggio?

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La risposta mediata dalla puntata è sicuramente affermativa. È certo che il metodo sia sbagliato, inumano, terrificante. E l’utilizzo del centro di giustizia diventa una vera e propria campagna elettorale su cui costruire fama e credibilità. Cinque anni fa come oggi, il ruolo della violenza nella società e nella proclamazione di se stessi sugli altri domina la scena. Pretende la sua assoluzione come metodo di punizione e la sua assenza genera scetticismo. Questo è quello che denuncia Black Mirror, una realtà ormai ovattata dalla distanza virtuale, quella che mette tutti nella posizione di essere protagonisti a discapito di altri. E come sempre, la denuncia avviene in modo geniale, terrificante e angosciante. Il finale è la risposta per nulla velata alla domanda legittima, condannare qualcuno che arriva a implorare la morte rende assassini.

Assassini consapevoli del male perpetrato, uomini intenzionati a far soffrire una vittima che ormai non ricorda più nulla. Eppure l’altra faccia della medaglia è sempre lì, quella che ora è la vittima è stata carnefice a sua volta. E nonostante questo, l’oggettività dell’azione punitiva è evidente. La noncuranza del pubblico che assiste, complice dell’atrocità, rimane l’aspetto più assurdo. Come se la responsabilità condivisa qui assumesse un ruolo predominante, ognuno condivide la sua colpa con l’altro e automaticamente diventa esente dall’atto.

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