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“In fin dei conti, come facciamo a sapere che due più due fa quattro? O che la forza di gravità esiste davvero? O che il passato è immutabile? Che cosa succede, se il passato e il mondo esterno esistono solo nella vostra mente e la vostra mente è sotto controllo?”

“Se vuoi un’immagine del futuro, immagina uno stivale che calpesta un volto umano — per sempre.”

1984, George Orwell

Per scrivere questo pezzo ho rivisto tutta Black Mirror in un breve lasso di tempo. È stato molto bello e molto brutto. La Serie Tv di Charlie Brooker è uno dei migliori show in circolazione. Il fatto che si tratti di un’antologia episodica ha diversi risvolti positivi e ci permette di interrompere il circolo di fruizione continua cui siamo abituati, senza dover mollare le Serie Tv:  l’esperienza spettatoriale infatti è ibrida e si posiziona a metà tra quella filmica e quella seriale. Questo è il punto: le puntate sono tutte legate dall’evidente fil rouge della deriva tecnologica, ma una volta guardata Black Mirror “tutta insieme” – certo mossi anche da un impeto masochista – si ha la percezione di trovarsi davvero, non solo in una storia, ma in un Universo. Storditi e impauriti, si prova il desiderio di esorcizzarlo definendone almeno i confini: si tratta di un Universo prossimo, parallelo o coincidente con il nostro? 

È un’esperienza immersiva, quanto sconcertante: sullo schermo (beffardo, no?) si palesano le nostre paure, le nostre paranoie, le nostre ossessioni e dipendenze, ma questo le storie e le Serie Tv lo fanno da sempre. Solo che con Black Mirror gli strumenti dell’angoscia non sono solamente davanti ai nostri occhi, ma tutto intorno a noi: il pc su cui guardiamo l’episodio, il tablet che abbiamo appoggiato sul comodino, il cellulare che teniamo vicino (non si sa mai).

In questo senso, sì, siamo immersi – personaggi? – nella Storia che stiamo guardando. 

Black Mirror

Che il futuro che ci racconta Black Mirror non sia troppo distante dal nostro presente è certo, anche se ce ne viene presentata l’espressione più nefasta e più tecnologicamente avanzata, i rimandi alla nostra realtà quotidiana sono innumerevoli: non ci resta che chiederci quanto manca al passo finale, quello che ci farà definitivamente precipitare nell’abisso che ci stiamo scavando e che la serie rappresenta così bene. Alle desolanti nonché ansiogene notizie dell’avverarsi di alcune “profezie” di questa Serie Tv, si aggiunge quanto è già radicato nel nostro atteggiamento, nel nostro modo di porci nei confronti di alcune questioni. Si tratta di modi d’essere che prescindono dalla tecnologia e dall’uso/abuso che ne facciamo.

Quando ho guardato Gli uomini e il fuoco (Men Againts Fire) la prima cosa a cui ho pensato è stata l’intervista di Ascanio Celestini a Le Invasioni Barbariche. Certo, lui ne faceva una questione linguistica, ma cambia poco dal momento che si tratta di una percezione: Celestini fa l’esempio del genocidio in Ruanda, nel quale hanno perso la vita circa 1.000.000 di persone nel 1994. Cosa ha permesso un simile massacro tra due etnie che convivevano pacificamente da sempre (almeno fino alla colonizzazione europea)? Di certo un ruolo centrale nella vicenda l’ha avuto l’appellativo “scarafaggi”. Gli hutu hanno iniziato a chiamare così i tutsi: è difficile pensare di uccidere una persona, ma non uno scarafaggio. L’episodio di Black Mirror ci mostra solo la deriva definitiva di un atteggiamento che è insito in noi, privandoci peraltro della possibilità di avvalerci di uno spirito critico che può rivelarsi salvifico.

Black Mirror

Quanto c’è della nostra mania di controllo e di possesso del partner in Ricordi pericolosi (The Entire History of You)? Quanta paura c’è venuta ripensando al nostro ultimo post intriso di rabbia gratuita e non richiesta mentre guardavamo Odio universale (Hated in the Nation)? E anche quando “le colpe” di cui tratta la serie non ci appartengono, c’è qualcosa di inquietante che sembra annullare lo schermo che ci separa dalla storia: dopo aver guardato Zitto e balla (Shut Up and Dance), con un residuo di ansia paranoide, un pezzo di nastro adesivo a coprire la webcam.

Sartre diceva che siamo condannati ed essere liberi ed è proprio questo il punto: stiamo rendendo la libertà una prigione, le possibilità  delle sbarre, le espansioni di tutto quel che siamo sono cappi invisibili (eppure l’asfissia la sentiamo, non è così?).

Nonostante il titolo, a me pare non si tratti di uno specchio, bensì di una lente d’ingrandimento, se non di un microscopio, che ci permette di vedere un mondo che, se riportato alla giusta distanza, si rivela per quel che è: una massa tumorale, un sogno in putrefazione.

Black Mirror

Black Mirror è impietosa: il contrappasso dantesco in versione 3.0 non lascia scampo: lo vediamo nel finale – un po’ telefonato – di 15 milioni di celebrità (Hai voluto la bici? Pedala!), ci distrugge moralmente in quelli di Odio universale (Hated in the Nation), e soprattutto, Orso bianco (White Bear). 

Ma questa serie non ci racconta solo le conseguenze di azioni negative. Arkangel, ad esempio, è la storia, vecchia come il mondo, dell’errore commesso per troppo amore (“La missione delle madri non è la procreazione, quanto la preoccupazione”, ci insegna Andrea G. Pinketts).

Nella galassia di storie che Black Mirror ci sottopone ce ne è stata solo una che ho molto faticato ad apprezzare, almeno fino al finale rivelatore del senso dell’intera serie. Metalhead ci ha calati in un’apocalisse dove persino i colori hanno smesso di esistere. Cruenta, cruda, senza via d’uscita. Magistrale dal punto di vista tecnico sotto ogni profilo, ero davvero tentata di interrompere la visione che mi risultava comunque fastidiosa. Poi, quegli orsacchiotti riversi a terra. Come a dire che quel che ci manca, proprio nel cuore degli inferi, la cura nell’aridità dell’umanità, è la tenerezza. Ecco lì, in bianco e nero, l’infanzia di un’umanità che, ormai adulta, ha perso quanto di più sacro avesse: se stessa.

Quindi, dobbiamo avere paura di tutto quel che facciamo? Sono finiti gli appigli per uscire da questo abisso?

black mirror

No, qualcosa ancora sfugge alla tecnologia. Ma cosa? Qual è l’ancora di salvezza, il possibile punto di rottura, la deriva di questa deriva? Quanto c’è di più umano: l’imperfezione. Così sono i nei del defunto di Torna da me (Be Right Back), così il fastidioso ansimo del tizio di Hang the DJ non calcolato dal sistema che crea le coppie. Le sfumature, l’imperfezione, l’errore è quanto ormai c’è rimasto da proteggere. Ed è proprio Hang the DJ che ci suggerisce la via per la salvezza: 1000 simulazioni completate, 998 ribellioni. Sì. Ribellioni.

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