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Ho guardato tutto American Horror Story Roanoke in una notte

Aver visto “American Horror Story: Roanoke” in un solo giorno non è certo identificabile come la rapsodica impresa dell’anno; farlo senza sospensione dell’incredulità, quello forse sì.
Ciò che è certo, però, è che l’esperienza ha senz’altro aperto riflessioni in itinere altrimenti assenti.
Prima tra tutte, l’idea preliminare e necessaria che Ryan Murphy debba aver trovato l’invenzione del secolo che avrebbe fatto impallidire Tesla con in mano i brevetti per la sua energia alternata.
Deve essere così, non c’è altra spiegazione: perché, durante quattro giorni e tre notti in cui si svolge la luna di sangue al ritorno a Roanoke, nessuno dei cellulari (quasi sempre in registrazione video) ha mai bisogno di essere ricaricato?

È necessario andare per gradi, perché se i contro pesano come una partita di suini della famiglia Polk e vanno oltre qualche accorgimento mancato, i pro sono salvifici, e in linea di massima si possono ritenere senz’altro il timone che riporta American Horror Story a livelli più che accettabili.

Murphy aveva qualcosa da dire, e nel farlo ha urlato a gran voce con la bocca coperta a due mani.
Sì, perché sottesa alla trama stavolta c’è una morale malcelata che spinge per eruttare e che, per quanto possa sembrare la solita solfa, affonda le radici nella storia prima ancora che nella leggenda.
Se me lo chiedeste, vi direi che l’urlo di Murphy non è tanto lo spaventevole squarcio nel silenzio di un’enorme magione infestato, quanto qualcosa di ancor più agghiacciante e che in quel magione fa da despota indiscusso: il raccapricciante urlo di rimprovero di una mamma.
Cosa c’è di più atavico e terrificante del rimprovero materno?
Ma che testa di porco c’entra con tutto ciò?
Ci arriveremo.

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Nell’impiego dello stile “mockumentary” adottato in Roanoke non c’è soltanto un amplesso di virtuosismi che confermano la maestria del buon Murphy, ma anche e soprattutto uno stile narrativo inevitabilmente assuefante: è inutile negare che siamo attratti come la ruggine al ferro dal confortante, e il “tell and show” messo in atto dall’intervista ai coniugi Miller (Shelby e Matt) e i loro interpreti all’interno dello show “Il mio incubo a Roanoke” è il giusto compromesso tra clima sospensivo ed attesa dello spavento.
In un millennio saccente, dal torpore sensoriale, e che crede di aver già visto ormai qualsiasi cosa, dissacrare uno “jumpscare” riuscendo a presentarlo con eleganza può talvolta essere una scelta azzeccata, specie se come capita nelle saghe di Murphy la dose di ironia illumina a sprazzi la scena.
Nota di menzione a sé meritano appunto i jumpscare, che se qualche stagione fa avevano la dote di far saltare dalla sedia per spegnere il televisore e disdire l’abbonamento a Sky, stavolta adempiono egregiamente al ruolo di perfido amaricante.

Il cast acquisisce sempre più consapevolezza di sé, e tra una Sarah Paulson che sembra essere di fronte allo specchio di casa propria per quanto accademicamente disinvolta, Evan Peters che sdogana lo stereotipo del belloccio incapace, ed Angela Bassett che si diletta perfino nella direzione di uno degli episodi (il sesto, per l’appunto uno dei meglio riusciti), il ritorno “bachiano” in toccata e fuga di una Taissa Farmiga nelle false spoglie di guest star è soltanto il pinnacolo sulla cima del monumento.

I tributi, tra interni ed esterni, sono sottili ed accontentano gli estimatori del genere: i fantasmi della famiglia asiatica assassinata sono un disilluso rimando a The Grudge, e più generalmente al reiterato modo di fare horror orientale; le riprese in prima persona del found footage della seconda parte di stagione (in particolare quelle ravvicinate di Sarah Paulson nel bosco) richiamano clima ed ambientazione di The Blair Witch Project; la famiglia Polk accenna al sadismo proverbiale ed alle tendenze cannibali della famiglia Sawyer di The Texas Chainsaw Massacre (Non aprite quella porta).
Ma senza crossover auto-citazionali, Roanoke non sarebbe potuta esistere. Letteralmente.
Questo perché mai quanto stavolta, i protagonisti delle scorse stagioni hanno un legame imprescindibile con gli sviluppi di trama: la strega (l’ormai onnipresente arcinemica Lady Gaga, che “senza saper né leggere né scrivere” presidia simbolicamente il ruolo lasciato vuoto da vossignoria Jessica Lange) viene definita la “Suprema originale” dalla quale discenderebbe evidentemente la “congrega” di Coven; l’intervista finale di Lee con la celeberrima Lana Winters di Asylum; perfino Edward Mott, il personaggio di Evan Peters e primo proprietario della casa, è un rimando alla dinastia Mott di Freak Show di cui Dandy è discendente.

Malgrado accennato da una sola parola, il riferimento più massivo è quello alla Muder House, che potrebbe considerarsi vicendevole: nella prima stagione, difatti, si fa ampio riferimento alla storia della colonia di Roanoke, ed alla parola lasciata dai coloni prima di estinguersi: Croatoan.

Applausi ad urbi et orbi, se non fosse che questo “Croatoan“, oltre a rappresentare la sintesi della fine e in un certo senso dell’assoluzione, è il mezzo che tampina il primo degli aspetti negativi di Roanoke.

Che Murphy abbia un certo feticcio per l’esoterismo non è una novità. È una novità, però, che questa componente cominci a risultare una zavorra tanto pesante quanto non lo era mai stata nel naturale flusso delle stagioni precedenti ad Hotel.
In Roanoke tutto calza, perfino la ricorrenza del concetto di permanenza spaziale delle anime (una casa, un luogo di appartenenza che si presiede anche dopo la morte e dal quale non è possibile evadere), tuttavia qualcosa va storto quando questa trattazione viene edulcorata dall’innesto del medium di turno, in questo caso il lillipuziano e seccante (o adorabile, la linea è molto sottile e soggetta a gusti) Cricket.
La sua line, oltre ad essere iperbolica e risultare eccessivamente caricaturale perfino per la venatura humor della serie, è totalmente inutile.
La sua presenza è superficiale, resa solo vagamente utile ai fini meta-narrativi nel raccontare la storia della Suprema con una logica del 2+2 fastidiosa per quanto banale, e non porta finalità concrete: perfino quando potrebbe avere un ruolo cruciale mettendo in sesto il rituale catartico, il “grande veterano ed esperto medium” viene rapito e smembrato. Ironia della sorte.

Alcuni comportamenti sono inverosimili e portano ad uscite di scena altrettanto inverosimili (l’omicidio di Matt, dal quale per diretta conseguenza scaturisce il disagio di Shelby e quindi il suicidio), la stessa scelta di Shelby di tornare nella casa richiede una sospensione dell’incredulità non indifferente (dopo la prima esperienza a Roanoke ci si aspetta un minimo di coazione e senso di preservazione. Per quello che riguarda Matt, l’infatuazione per la Suprema è un espediente sicuramente passabile).
Spiritosamente (ma nemmeno poi così tanto) viene anche da pensare alla ragione per cui esista il “beep” della censura sul linguaggio in un programma che mostra morti esplicite in una messa in onda internazionale.
Alcuni espedienti sono forzati, per quanto sia dovuto riconoscere che sono necessari alla modalità di ripresa; nel caso più evidente, nella seconda metà della stagione dedicata al found footage, quando per legittimare le riprese in prima persona di Agnes (la finta Macellaia) col cellulare, viene inserita una battuta di Dominic (il finto Matt), che sbigottito esclama: Perché diavolo sta riprendendo sé stessa?.
Non c’è una reale ragione, se non le manie di protagonismo del personaggio in questione, ma ciò è necessario alla struttura e passa per buono.

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Ma cosa aveva a che fare con tutto questo il riferimento all’urlo materno?

È semplice: American Horror Story Roanoke non è la storia di Shelby e Matt, tanto meno la storia dei membri dell’omonima colonia (quest’ultimo è un utile riferimento al messaggio, ma non il messaggio insito).
Roanoke è, inaspettatamente, la storia di Lee e del suo dramma materno visto come segregazione del genere femminile e messo a paragone con la leggenda che diventa storia.
La leggenda della Macellaia si fonde con la condizione esistenziale di Lee nella rappresentanza di un periodo buio della storia che inneggiava alla disparità dei sessi.
Nella storia della Macellaia, il matriarcato vince sul patriarcato; allo stesso modo, Lee vince sul potere del marito (in maniera violenta, come solo un dramma horror sa spiegare) e riconquista parte dei suoi diritti.
Il tutto sullo sfondo appena lucente e distinguibile di dinamiche interrazziali in un mondo post-razziale.
La parità razziale emerge in un contesto razziale ed il matriarcato emerge in un sistema patriarcale, e la morale rende tutti vincitori.

L’urlo scimmiottato di Murphy, seppur coperto a due mani, si è sentito forte nell’identità di American Horror Story Roanoke, e dà nuovo vigore ai rimproveri della mamma.
Badate bene ad essere obbedienti, da oggi.

Ora vi saluto, la mamma mi chiama: CROATOAN!