Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler su Westworld.
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“Sono orgoglioso di quello che abbiamo fatto. È stata un’esperienza straordinaria. Penso che sarebbe un errore guardare indietro e provare solo rammarico [per come è finita]. Ma c’è ancora il desiderio di finirla“. Così Jonathan Nolan si era espresso nel 2024 in un’intervista rilasciata all’Hollywood Reporter. Con una convinzione: Westworld, una delle sue creature più prestigiose, nonché quella che più di ogni altra ha riscritto il concetto di “ambizione” in ambito televisivo, merita ancora un finale. Un vero finale. Quello che lui e Lisa Joy, co-autrice della serie, avevano in mente fin dall’inizio. Un finale che la HBO gli ha fin qui negato: andata in onda tra il 2016 e il 2022, Westworld è stata infatti cancellata dopo quattro stagioni. Un cult assoluto del nostro tempo, nelle premesse. E che cult effettivamente è stato, almeno con la prima stagione. Interrotta, però, a seguito di un fallimento evidente su ogni fronte.
Cosa è successo, davvero? Cosa è andato storto, sul serio? Parliamone un po’.
Ricostruire la storia del mesto declino di Westworld è semplice, da un lato. Dall’altro, però, merita approfondimenti consistenti. Con una premessa: la sua genesi aveva il chiaro intento di definire una creatura che avrebbe dovuto assumere una centralità assoluta per la televisione mondiale. Era nata con l’obiettivo di farne la serie tv di riferimento per un pubblico vastissimo, grazie alle menti visionarie di due autori eccezionali e con investimenti da record per gli standard di una tv che stava vivendo una delle migliori fasi della sua storia. Westworld, in sostanza, doveva diventare la massima espressione possibile della prestige tv allora imperante: seppure con caratteristiche completamente diverse, aveva l’onore e l’onere di essere, per la HBO, la serie che avrebbe raccolto l’ingombrante eredità mediatica di Game of Thrones.
Giusto per rendere l’idea: il pilot, ancora oggi uno dei più costosi di sempre, necessitò di un investimento eccezionale da 25 milioni di dollari.
Un’enormità: se poi si aggiungono i 25 del finale di stagione, si arriva alla bellezza di 50 milioni di dollari per due sole puntate. Un’enormità, ma i tempi erano quelli che erano: erano gli anni della peak tv e delle grandi produzioni di massa. Distinguersi era diventato sempre più complesso, il quadro era sempre più frammentato ed HBO aveva deciso di scommettere su un vero e proprio kolossal “alla Game of Thrones” per portare avanti la sua tradizione d’altissimo livello.
L’investimento portava con sé l’implicita necessità di attirare un pubblico gigantesco, e non fu semplice fin dall’inizio. Westworld, uno sci-fi sui generis che presentava un parco divertimenti a tema western popolato da intelligenze artificiali ultra-realistiche da ogni punto di vista, presentava margini di rischi notevoli, rispetto agli esborsi necessari. Era sì uno show affascinante con premesse a suo modo uniche, ma scommetteva con decisione su un’idea di autorialità televisiva più specifica di quanto ci si potrebbe attendere da una produzione tanto importante. Un bene, per tutti noi: HBO aveva scommesso su un pubblico appena reduce da Breaking Bad e Mad Men, nonché dalla stessa Game of Thrones. Un pubblico che aveva il palato sempre più fino ed esigente, e che richiedeva a gran voce prodotti di questo tipo.
A conti fatti, fu però un azzardo. Nonché un salto nel vuoto.
Uno di quelli che la grande tv ha ampiamente pagato negli ultimi anni, caratterizzati al contrario da una consistente spending review che ha limitato investimenti del genere a produzioni con garanzie più estese. In ogni caso, andò molto bene: seppure i numeri non fossero stati straordinari manco nel suo prime, Westworld aveva dalla sua la giustificazione di un’aura speciale.
Perché speciale lo è stata, eccome: la prima stagione, valorizzata da un cast impressionante e al centro dell’attenzione con interpretazioni a dir poco magnetiche, è un masterpiece di scrittura e resa visiva. Westworld aveva catalizzato l’attenzione globale con una trama intricata e ricca di misteri, degna della migliore Lost. Si affidava alla sete di un pubblico attento e pronto ad avventurarsi in una storia complessa, introspettiva e votata allo sviluppo di tematiche importanti.
Insomma, l’impresa sembrava esser stata centrata. Grazie anche alla presenza carismatica di un mostro sacro del cinema mondiale come Anthony Hopkins, Westworld aveva messo d’accordo critica e pubblico.
Valutazioni altissime, ascolti ottimi. L’autorialità più raffinata aveva sposato una trama che aveva sfidato il pubblico e l’aveva immerso in dinamiche sempre più labirintiche, sublimando l’interazione con payoff costanti e una componente action che teneva incollato allo schermo anche il pubblico meno esigente, più attratto dall’immediatezza.
Il sangue e il sesso sì, ma soprattutto un gran cuore. Generava una spiccata empatia con personaggi intensi e viscerali, figli della lunga tradizione del western e della fantascienza, senza per questo perdere la propria unicità. Un’unicità universale, in cui era possibile riconoscersi e parteggiare in uno scenario ampio e, parallelamente, claustrofobico. La storia di un tempo, proiettata in un futuro distopico col respiro di un’opera in bianco e nero, se non addirittura dalle vivide pagine della letteratura più classica. Westworld era un kolossal mainstream, ma con la scrittura di un film d’essai: evocava, suggestionava, impegnava, metteva in discussione ogni nostra certezza e dava in cambio un magistrale esempio di cosa possa essere la complessità umana, se applicata a un esempio straordinario di scrittura televisiva.
Westworld aveva tutto. Era un macrocosmo di letterature sovrapposte in un quadro armonico. E proprio per questo, convinse tutti.
HBO aveva la sua nuova serie di riferimento, ancora prima che Game of Thrones potesse arrivare al suo traguardo. I cento milioni di dollari investiti per la prima stagione erano stati ben spesi: la prima stagione raggiunse così 12 milioni di spettatori cumulati negli Stati Uniti. Seppure la mole di pubblico avesse giustificato solo fino a un certo un esborso del genere, la HBO era catapultata ancora nella prestige tv da regina assoluta.
Con la seconda stagione, però, si ruppe qualcosa da subito. La stagione d’apertura aveva osato al punto da necessitare di un rilancio esplosivo per mantenere la serie sui medesimi standard, e il duo composto da Nolan e Joy non ritrovò l’alchimia magica dell’esordio. Noi, dal canto nostro, accettammo la sfida ancora più impegnativa e recensimmo Westworld 2 con un entusiasmo immutato, ma il pubblico non era dello stesso avviso: pur di mantenersi in vetta, la narrazione si fece via via più complessa. Troppo complessa.
Quello che era uno dei principali meriti divenne una gabbia dorata. In un costante confronto con la miglior versione di sé, Westworld si incartò in una trama impossibile. A tratti ingestibile anche per il pubblico più scafato.
Pubblico e autori non erano più sincronizzati: all’intrattenimento intellettuale si preferì un manierista esercizio di stile con pattern ormai abituali e sviluppi intangibili per i più. Ricchi sì di spunti e contenuti, ma incapaci di connettersi ai destinatari.
Diventò complesso elaborare delle teorie soddisfacenti, e questa era stata una delle principali chiavi del successo della prima stagione: il nostro Vincenzo Bellopede, autore delle recensioni, fece un lavoro eccezionale per collegare i fili e risolvere gli enigmi del primo ciclo di episodi, riuscendo spessissimo nell’intento. Era appagante, a dir poco: l’interazione tra il racconto e il pubblico aveva creato un’irresistibile legame, quasi fossimo dentro un videogame. La seconda, invece, fu inaccessibile per tutti. Pur di superare se stessa, si era fermata a un passo da essa. Volò pindaricamente verso spazi inesplorati, trovando il sole come inevitabile argine.
Fa sorridere, in tal senso, il commento di un utente che sintetizzò perfettamente l’involuzione di Westworld in questo frangente: “Ero lì durante le indagini su Breaking Bad, The Walking Dead, Game of Thrones”, ha scritto l’utente. “Ma qui siamo diventati completamente folli alla ricerca di indizi, al punto da essere diventati dei pazzi raggrinziti che setacciano la sabbia già setacciata alla ricerca anche del più insignificante indizio su cosa succederà in qualcosa che prima o poi vedremo“.
In poche parole, l’esperienza con Westworld era diventata frustrante. E il pubblico, scottato, la abbandonò sul più bello.
Lo dicono i numeri, da noi riportati dopo il season finale: “Secondo le classifiche il finale della seconda stagione di Westworld ha avuto 1,6 milioni di spettatori con un calo del ben 30% rispetto al finale della prima stagione. Nel complesso, la stagione 2 ha visto un calo del 14% nei telespettatori e un calo del 23% nella chiave demografica in confronto alla prima stagione. Nonostante ciò, le valutazioni di Westworld sono tutt’altro che disastrose. Secondo HBO, la seconda stagione raggiungerà la media di 10 milioni di spettatori per episodio una volta che verranno presi in considerazione i numeri dello streaming online”.
A fronte di costi ancora più importanti (oltre 107 milioni di dollari in totale), gli ascolti segnarono un calo sensibile.
Il finale di stagione fu seguito da 1,6 milioni di spettatori, con un −30% rispetto al finale della prima, un −14% complessivo sui telespettatori e un −23% nella fascia 18–49.
HBO era ancora fiduciosa, ma era evidente che qualcosa si fosse spezzato. E quando si spezza il vincolo di fiducia tra una storia e il suo pubblico, ricomporlo è pressoché impossibile. Oltretutto, Nolan e Joy decisero di intraprendere la strada più fallimentare: nel disperato tentativo di recuperare l’anima mainstream, decisiva per giustificare i costi crescenti della produzione, finirono per snaturarsi. Il 6 maggio del 2020, pubblicammo allora un articolo con un titolo che ben univa l’amore per questa straordinaria avventura con la cocente disillusione appena provata: “Westworld ha rovinato tutto pur di piacere a tutti”.
Scrivemmo, al termine della terza stagione: “Westworld non è stata minimamente se stessa e si è reinventata in un incoerente sequel ultramuscolare a metà strada tra Blade Runner e Kill Bill, lontano anni luce dalle prime due stagioni. Troppa azione, spesso mal eseguita pur avendo a disposizione un budget principesco, meno introspezione. Più scontri dimenticabili, meno dialoghi memorabili. Più sangue (quasi sempre fine a sé), meno filosofia. I personaggi storici sono stati sacrificati sulla via della semplificazione esasperata nei toni e nella sostanza, mentre i nuovi ingressi sono risultati inconsistenti”.
Un’operazione goffa: Westworld ampliò gli orizzonti narrativi con un’apertura al mondo esterno che perse il fascino evocativo del western.
Più di tutto, lavorò al contrario per sottrazione: semplificò oltremisura le trame, diventando una serie come tante altre. Un comunissimo sci-fi: ben fatto, per carità, ma niente che ricordasse in alcun modo gli straordinari fasti della prima stagione in termini di scrittura e sviluppo introspettivo o filosofico. Risultato? Una stagione che fu accolta con indifferenza dal grande pubblico, mentre il fandom che ancora credeva nella serie si sentì tradito dal nuovo corso. Era diventato un figlio confuso della peak tv, dopo esser stato un manifesto dell’era prestige.
I numeri, allora, furono una naturale conseguenza. Crollarono verticalmente con un calo che creò un solco profondo tra gli investimenti e un pubblico che ormai aveva abbandonato definitivamente la serie. Si arrivò quindi a una terza stagione che costò altri 100 milioni di dollari e restituì alla HBO una media di 800.000 spettatori a puntata. Pochissimi. Infinitamente meno rispetto ai 3,3 milioni di spettatori che avevano seguito la premiere, e in forte calo anche rispetto alla pur deludente seconda stagione.
Pochi credevano ancora in Westworld. Ma noi, amanti immersi in una storia al tramonto, eravamo ancora disposti a perdonare il “tradimento” e sperare in una nuova alba: “Westworld, tuttavia, non è ancora morta. È semplicemente diventata una serie come tante altre, fino a prova contraria. Ma l’immortalità televisiva è nella direzione opposta: a Nolan, Joy e l’HBO l’onore e l’onere di percorrere coraggiosamente quella via. La giusta via, manco fossero Mozart, Beethoven o Chopin. Nel caso, faremo finta di dimenticare questa stagione“.
Purtroppo, sapete già come finisce questa storia. La quarta stagione di Westworld, arrivata a fari spenti, fu però ancora più costosa delle altre. Si stima che i budget arrivarono addirittura a 160 milioni di dollari con una spesa di 20 milioni di dollari circa a puntata.
Troppi, se rapportati alla sostanziale indifferenza con cui fu accolta dal pubblico. Un peccato, al di là di tutto: le nostre speranze, infatti, si erano concretizzate in una stagione che aveva ritrovato lo spirito delle origini e aveva sviluppato compromessi più convincenti per unire l’anima della serie alla necessità di semplificare senza rimanere troppo in superficie. Westworld 4 era riuscita dove la terza aveva fallito, e il pubblico non se ne rese manco conto: per loro, la serie non era più un’opzione valida.
Si arrivò così alla cancellazione, al termine dell’annata.
Nolan e Joy avrebbero avuto bisogno di un’ultima stagione per chiudere il cerchio e regalare un degno finale a questa straordinaria avventura. Tuttavia, i costi eccessivi, sovrapposti alle nuove priorità di una HBO in transizione e bisognosa di applicare delle politiche più sostenibili per confrontarsi con le mutate esigenze del mercato, portarono al corto circuito finale. HBO dichiarò: “Nelle ultime quattro stagioni, Lisa e Jonah hanno accompagnato gli spettatori in un’odissea allucinante, alzando l’asticella a ogni passo. Siamo immensamente grati a loro, al loro cast, ai produttori e alla troupe di immenso talento, e a tutti i nostri partner di Kilter Films, Bad Robot e Warner Bros. Television. È stato emozionante unirci a loro in questo viaggio”.
Westworld si concluse così, senza un vero finale. Quello che il mondo aveva accolto come nuovo potenziale messia della televisione mondiale, finì in silenzio. Malinconicamente sottotraccia. Con un comunicato di poche righe. E col rammarico di chi aveva creduto in fondo nell’operazione. Un’operazione talmente bella da portarci, a tre anni di distanza, a credere ancora nella possibilità che qualcuno possa creare i presupposti giusti affinché Westworld possa vivere il suo ultimo giro di giostra. Nolan e Joy non hanno mai smesso di pensarci, noi neppure.
“Mai iniziare nulla che tu non voglia finire”, dice a un certo punto Maeve. Troppo tardi, ma sarebbe sbagliato pentirsi: al di là della sua mesta fine, Westworld ci ha regalato alcuni tra i capitoli televisivi più significativi dell’ultimo decennio. Oltre ogni disillusione, il ricordo dei giorni migliori rimarrà comunque intatto.
Antonio Casu






