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Watchmen, la serie che da 0 a 10 riesce a prendere 11

Perchè sarebbe opportuno vedere, rivedere, recuperare Watchmen – la serie?

Esistono serie televisive che lasciano il segno, come una profonda cicatrice o un tatuaggio ricco di simbolismi personaIi, e altre che passano del tutto inosservate nell’infinito oceano di prodotti proposti nella sfavillante età dell’oro dello show business che stiamo attraversando.

Serie televisive che ti squarciano anima e corpo e altre buone solo come riempitivo tra una faccenda domestica e l’altra. Quelle che ti rimangono scolpite indelebili nella memoria dei fruitori del piccolo schermo e altre, cestinate mestamente nel dimenticatoio.

Watchmen – la serie si colloca alla sinistra di tutte queste dicotomie, entrando di diritto nell’Olimpo della serialità televisiva.

Ecco, dunque, le tre caratteristiche principali che fanno di questa miniserie un’opera elettrizzante, potente, meravigliosa, insomma, praticamente perfetta.

1) LA COERENZA

Tutto, ma proprio tutto di Watchmen risulta concettualmente in perfetta sintonia col capolavoro originale del 1986 che riesce a scorgersi in ogni istante in un’ineguagliabile escalation di tensione, drammi sociali e intensi rapporti familiari. La somiglianza col fumetto è devastante così come sorprende il modo in cui ci si discosti da questo nella realizzazione di un vero e proprio prodigio.

Ambientata circa trenta anni dopo gli eventi della graphic novel culto, I’autore Damon Lindelof, con invidiabile maestria, ci catapulta, senza alcuna sbavatura, nelle stesse autentiche atmosfere ideate brillantemente da Alan Moore e Done Gibbons.

L’universo narrativo è, dunque, lo stesso e, pur allineandosi alle paure e ai fantasmi contemporanei, le contaminazioni con il passato sono tanto evidenti quanta riuscite.

II mondo distopico, anzi ucronico, che ci aveva coinvolto e rapito sulle pagine del fumetto resuscita, o meglio si reincarna attraverso nuovi personaggi dalla grande personalità e sorprendente caratterizzazione.

La differente evoluzione della tecnologia, l’eccentricità dominante, le buffe e grottesche maschere che avvolgono i volti delle forze dell’ordine, le bizzarre navicelle utilizzate dalle autorità per sgominare il crimine, i deliri di onnipotenza contrapposti a nobili gesta di moralità e umiltà. Sono tutti riferimenti che l’occhio allenato è in grado di cogliere e che gli autori spargono qua e là nell’ottica di un continuum narrativo efficace.

In un unico circolo nietzschiano tutto si ripresenta e si riassapora, persino la tecnica della metanarrazione: nel Watchmen originale la storia nella storia era quella dei “Racconti del vascello nero”, nella serie, invece, è quella della docu-fiction “Real american story” basata sui Minutemen, i primi vigilanti mascherati, antecedenti ai più famosi e incisivi watchmen, nati nel 1938.

Un turbinio di emozioni che consente alia miniserie di ricoprire un arco narrativo, tanto complesso quanto minuziosamente dettagliato, praticamente lungo un secolo. E questo solamente in nove episodi.

La fedeltà maniacale e I’ossequioso rispetto nei confronti del materiale originale si realizza, inoltre nell’abile, furba e inevitabile scelta di riproporre alcuni degli iconici personaggi partoriti dalla cervellotica mente di Alan Moore. Laurie Juspeczyk, alias Spettro di Seta II, Adrian Veidt, più comunemente noto col nome di Ozymandias, l’uomo più intelligente del mondo, e poi lui, Jon Osterman, vale a dire il mitico e insuperabile Dottor Manhattan, l’uomo blu fosforescente che tutto vede e tutto può e che attendiamo di ritrovare con la stessa identica ansia e bramosia di un bambino in procinto di ricevere i regali da Babbo Natale. II penultimo episodio della serie lo vede mirabolante protagonista; un gioiello di scrittura raramente visto sul piccolo schermo concentrato sul più classico degli abboccamenti in un bar in cui lo sentiamo parlare quasi per un’ora senza mai vederlo in faccia alimentando quella morbosa curiosità che ci scorre nel corpo come una scarica elettrica per tutte le puntate precedenti.

Tante saranno le briciole che parlano di lui nel corso della serie, quante saranno le mascelle calanti sul tramonto della stessa.

Anche l’elemento di crisi che incombe spaventosamente tra le pagine del fumetto viene qui ripristinato con classe seppur in vesti del tutto dissimili: l’ansia del nucleare, l’orlo e lo spauracchio di una terribile guerra fredda nel Watchmen di Moore, la minaccia del suprematismo bianco al potere nella miniserie.

E poi, naturalmente, il fattore tempo. I continui riferimenti agli orologi e quell’opprimente e simbolico countdown verso la fine del mondo lasciano il posto ai viaggi nel tempo “contestuali” che solamente il Dottor Manhattan è in grado di intraprendere. Momenti di assoluto godimento accompagnati dall’ipnotico montaggio che mette in scena virtuosismi televisivi capaci di lasciarci di stucco dinanzi agli accadimenti narrati, toglierci il fiato e farci per un attimo ritornare ai bei tempi di Lost e alla sua “costante”.

Lindelof gioca col pubblico collezionando easter-egg e riempiendo la serie di molteplici riferimenti, su tutti l’attacco della piovra gigante, di cui l’eccentrico Looking glass è superstite, e che fa da sbalorditivo e angosciante opening della quinta puntata. Watchmen – Damon Lindelof apre alla possibilità di una seconda stagione antologica

Watchmen, quindi, riesce in un’impresa titanica: attingendo a piene mani nel fumetto, nutrendosi puntata dopo puntata delle risorse ottenute come lascito dall’opera originale, riesce, attraverso una trama del tutto inedita, ad affrancarsene con spavalderia e, persino, a brillare di luce propria assurgendo, molto probabilmente, a miglior miniserie di tutti i tempi.

2) L’ATTUALITA’

“Non è razzista, ma è sulla buona strada”.

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Ok la scrittura impegnata, va benissimo il colpo di scena che ci fa schizzare dalle sedie, nulla da dire sul cast sopraffino (sui quale torneremo più avanti), ineccepibili trama e colonna sonora, ma una serie tv non può limitarsi esclusivamente alla forma e all’aspetto estetico, ma deve saper affondare il colpo perfetto e scassinare la cassaforte non solo delle emozioni, ma anche quella delle tematiche politiche e sociali.

Watchmen, nell’era della snervante e onnipresente del “politicamente corretto” tocca delicatamente tematiche più che mai attuali senza, tuttavia, sprofondare nell’abisso dell’ovvio e del banale.

La serie muove i suoi primi passi con i terrificanti eventi del maggio 1921 a Tulsa, in Oklahoma, quando, fuori da ogni ragionevole logica, orde di bianchi impazziti, utilizzando ogni risorsa disponibile, persino gli aerei, si resero artefici di una sanguinosa sommossa nella comunità di Greenwood sparando all’impazzata sulla folla causando la morte di un incalcolabile numero di afroamericani. Questo orribile episodio fa da apripista all’intera tematica razziale presente nella serie, purtroppo sempre attuale.

Da una parte la setta della “Settima cavalleria”, dall’altra un gruppo di uomini bianchi abilmente insinuatisi nei meandri della politica e dei poteri forti americani all’interno dell’organizzazione massonica “Ciclope”, lo spietato e atavico villain della serie risulta, così, essere il famigerato suprematismo bianco.

Un minimo comune denominatore che percorre epoche diverse e che, di tanto in tanto, cerca di tornare a galla appoggiandosi sul malcontento contingente e cullato da pericolose classi dirigenti accondiscendenti.

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L’apoteosi della rivincita e del riscatto, però, si esaurirà in un Dottor Manhattan di colore; il superuomo divino che cambia i suoi connotati sulla scelta del proprio partner, una a dir poco commovente Regina King, alla quale lascerà in eredita le proprie trascendenti e trascendentali abilità.

Persino il tema dell’omosessualità verrà accennato con grazia e raffinatezza. Sfiorato, mai invadente, ma dannatamente toccante. Presente, ma mai ingombrante, sensuale, ma mai volgare, nascosto, ma mai rinnegato. Lindelof resta fedele al Watchmen di Moore ma, attualizzandolo, riesce persino a impreziosirlo compiendo un vero e proprio miracolo televisivo. L’autore di The Leftovers ci riscalda il cuore come solamente una penna geniale è in grado di fare racchiudendo in un inestimabile scrigno tenacia e rassegnazione, passione e compassione, idillio e crudele e ingiusto realismo.

3) LA BELLEZZA

Eh si, perchè a furia di parlare di tematiche scomode, ma essenziali e parallelismi tra l’originale e il sequel rischiamo di perdere di vista l’obiettivo principale: ma Watchmen è una bella serie, oppure no?

Domanda alquanto pleonastica. Watchmen è un autentico masterpiece, e non solo di genere. Si tratta di una grandiosa gioia per gli occhi, è una serie complessa, magari non proprio per tutti, ma straordinaria. Tocca vette di pregevole fattura anche in virtù di un cast in stato di grazia.

Regina King è una Sister Night magnifica, un personaggio inquieto, tosto, burbero per il quale provare empatia e autentica commozione.  La sua toccante interpretazione le è valsa un meritatissimo Emmy come miglior attrice protagonista in una limited series.

Premio anche sul versante maschile consegnato a Yahja Abdul-Mateen II nei panni dell’imperscrutabile, cinico, ma profondamente innamorato Dottor Manhattan. Un’interpretazione vivida, tridimensionale e anche coraggiosa.

Senza dimenticare sua maestà Jeremy Irons che per l’occasione diventa il machiavellico nonché deus ex machina della situazione Ozymandias, impegnato in piena frustrazione, a trovare tutti i modi possibili per tornare sulla Terra dopo l’esilio intergalattico dorato, tra l’altro voluto con tutte le sue forze e reso possibile solo dagli infiniti poteri del Dottor Manhattan.

Menzione speciale, inoltre, per uno dei volti più acclamati della critica degli ultimi anni, una poderosa Jean Smart, Spettro di sete II, ora non più vigilante mascherato, ma indefesso e caparbio agente dell’FBI.

Infine, emergono ulteriori convincenti prestazioni, come quella di Don Johnson (il capo della polizia Crawford sui quale pioveranno macabri sospetti) e dell’indimenticato sergente di Ufficiale e gentiluomo Louis Gossett jr. nei panni dell’anziano e vendicatore Will Reeves.

Un cast ricco, perfettamente bilanciato che rende giustizia al complicato e vasto costrutto narrativo della serie.

II tutto condito da un’abbagliante e multiforme fotografia, accompagnata da una regia impeccabile e da una sceneggiatura che farebbe impallidire i più navigati romanzieri. L’episodio numero sei, un vibrante ed emozionante excursus storico in bianco e nero, è stato giustamente insignito di un Emmy grazie alla fenomenale scrittura degli autori Damon Lindelof e Cord Jefferson.

Emmy award alia miglior miniserie del 2020, Watchmen ha rappresentato un’operazione a dir poco complessa, tremendamente ambiziosa, ma soprattutto coraggiosa. L’inevitabile confronto con l’opera originale, causa di molteplici scetticismi da parte del malmostoso pubblico seguace di Alan Moore, vede crollare sul nascere dubbi e incertezze convincendo gli spettatori, quelli più sospettosi (i fan della prima ora della graphic novel) e quelli più predisposti alla meraviglia.

Un’opera artistica per la quale va ringraziata ancora una volta l’emittente via cavo HBO che da anni si mette al servizio del proprio bacino d’utenza con cimenti di estrema qualità e affidabilità.

Dio benedica Watchmen, Dio benedica Lindelof, Dio benedica I’HBO.

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