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Vikings – La recensione del finale di serie

Questo 2021 iniziato con un mare di speranze e proseguito più realisticamente come continuazione del 2020, non ci ha risparmiato in appena poche settimane addii importanti. Tra questi quello a Vikings 6, che con la sua seconda mid-season e un episodio finale dal titolo piuttosto eloquente, sancisce l’ulteriore conclusione di un’importante era seriale. Ovvero quella segnata da serie tv che come Vikings e Game of Thrones, destinate a tracciare la storia della tv di quest’ultimo decennio.

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Dunque The Last Act – episodio 20 di Vikings 6 – conclude la serie storica di Michael Hirst. E lo fa con un finale destinato – come quelli di tutte le grandi serie tv – a dividere e far discutere.

La scena finale di Vikings 6 decide di staccarsi da quella con cui la serie esordì nel 2013. Al sangue e alla morte nell’oscurità di un campo di battaglia a est, questo episodio di Vikings contrappone la calma di una spiaggia, la vastità del mare e lo sguardo a esso proteso di due personaggi fondamentali di questa serie.

Così Michael Hirst decide di concludere la serie che ha appassionato milioni di telespettatori in tutto il mondo per ben sette anni. E lo fa non prima di aver dato a ogni personaggio della serie una chiusura tutta personale, in alcuni casi strettamente coerente con l’evoluzione dello stesso, in altri un po’ meno. Valutando il quadro d’insieme Vikings 6 appare come una stagione il cui unico obiettivo è stato regalare a ogni storico personaggio della serie un senso di vita con cui far pace e una chiusura degna di questo nome.

Già nella prima mid-season di Vikings 6 avevamo detto addio a un personaggio storico della serie, Lagertha.

In questa seconda parte di Vikings 6 ci ritroviamo invece a dire addio al resto dei personaggi, uno ad auno. Lo facciamo seguendo una trama che segue un ritmo senza dubbio più celere di quello a cui eravamo abituati. Sintomo probabilmente della volontà da parte degli autori di chiudere una serie tv andata avanti per parecchio tempo. Una serie che, per quanto ancora piena di spessore, aveva perso molto del suo antico fascino nelle ultime due stagioni. E una serie che aveva tutto sommato anche finito di raccontare ciò che doveva.

Vikings è nata proponendosi di raccontare la storia di un popolo, concentrandosi sulla fase forse più gloriosa dello stesso. Una fase durata nella realtà oltre un secolo, ma concentrata nella finzione in poche decadi per necessità narrative (ne avevamo parlato qui). Lo ha fatto egregiamente, ed ora era giusto concludere. Regalando a ognuno dei personaggi che ci hanno accompagnato per sei lunghe stagioni (chi più chi meno) un finale in cui ognuno sposasse i propri demoni o perisse sotto i loro colpi.

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Per quasi nessuno di loro la prima conclusione ha escluso necessariamente la seconda.

Una dinamca che ha senso nel momento in cui riflettiamo sulla gamma di valori e sentimenti che hanno caratterizzato i vichinghi raccontati da Michael Hirst. Gli stessi valori urlati a gran voce da Ivar nell’atto finale della sua vita. Ovvero il rapporto con la morte sempre ambivalente, caratterizzato dalla ferocia con cui si combatte per la vita e per il piacere della guerra, e da un’accettazione serena se non euforica della stessa, che per molti guerrieri signfica Valhalla. La cena alla tavola di Odino, assieme agli altri dei e agli avi che hanno saputo guadagnarsi quel posto.

Andrà nel Valhalla Ivar the Boneless, dopo aver vinto, perso, e vinto ancora. L’ultima volta contro la fascia folle di quel popolo russo che lo ha salvato e accolto alla sua corte. Lo farà dopo aver fatto i conti con la consapevolezza dei suoi limiti, con lo smarrimento di una mancanza di prospettive. Con i ricordi e gli insegnamenti di suo padre, con la rabbia, l’amore per i fratelli e la paura mai davvero ammessa, se non alla fine.

Nel bene e nel male, lo abbiamo sempre saputo: il nome di Ivar non sarà mai dimenticato.

Ad accompagnarlo ci sarà Re Harald, uomo ambiguo, segnato da grandi imprese, rimorsi e colpe. Lascia la terra che tanto aveva desiderato governare consapevole di essere condannato a non essere mai amato, né dal popolo né dalle donne desiderate (come invece fu per il tanto invidiato Bjorn), inseguendo il suo istinto di guerriero e viaggiatore come una sorta di espiazione. Con la consapevolezza inconscia di non farvi ritorno. E infatti ci lascia sul campo di battaglia in Wessex, con una commovente riconciliazione allo spirito dell’amato fratello Halfdan.

Ed è riconciliazione al proprio amore più grande, alle porte del Valhalla, anche per Gunnhild. Vedova di Bjorn, in parte morta assieme a lui il giorno della sua ultima impresa. La visione dei grandi del passato che avevano vissuto nella Great Hall prima di lei, non faceva presagire nulla di buono per la regina, ormai priva di spinte per continuare a vivere o governare. Una spinta che altresì esiste per Ingrid, ma su basi diversi.

Vikings 6 conclude la storyline di Kattegat con un’inaspettata svolta. Ovvero un governo che non vede alcun figlio di Ragnar ereditare il trono, ma un’ex schiava in grado di realizzare – un po’ con l’inganno, un po’ col desiderio di riscatto – un sogno che forse mai aveva osato nutrire: diventare regina.

Salutiamo così Ingrid, prima regina a governare da sola dopo Lagertha. Con l’aiuto di un’altra schiava e le mani sporche del sangue di Erik. Un personaggio altrettanto ambiguo, in grado di ribaltare continuamente i nostri sentimenti nei suoi riguardi. Forse il personaggio peggio gestito nel corso di entrambe le mid-season di Vikings 6. La sua morale tuttavia si sposa perfettamente con quello che Ragnar disse a Bjorn circa il potere e che mai dovremmo dimenticare quando pensiamo a questa serie tv.

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Il potere è pericoloso. Attira i peggiori e corrompe i migliori. Il potere è adatto a chi è pronto ad abbassarsi per raccoglierlo.”

E non è un caso che in lungo e in largo, da ovest a est, uomini come Erik, Re Harald, Kettil Flatnose e il principe Oleg, abbiano vissute le conclusioni più tragiche viste in Vikings 6. Ognuno di loro è rimasto solo, isolato da tutti, morto o impazzito nel tentativo di conquistare o tenersi stretto quel potere che li aveva attirati come acqua nel deserto. E che li aveva corrotti al punto da far marcire la loro anima.

E non è altrettanto un caso che sia stato invece Ubbe il protagonista dell’ultimo commovente atto di Vikings 6. Lui, che tra i figli di Ragnar era quello più simile al padre, nella sua essenza primordiale di contadino. Di uomo semplice alla ricerca di una nuova terra da coltivare, di un mare tutto da esplorare. Di un nuovo mondo da scoprire e vivere. Lo rimarca persino il ritrovato Floki, che sottolinea quanto Ubbe gli ricordi Ragnar.

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Lui, che di sogni infranti e spazzati via dall’ossessione per il potere e la ricchezza, ne sa fin troppo.

Il finale riservato al maggiore dei figli avuti da Ragnar e Aslaug è un omaggio straordinario alla storia di Erik il Rosso, vichingo che si suppone abbia scoperto la Groenlandia prima e Vinland – in Nord America – dopo. Ma è soprattutto uno straordinario omaggio alla possibilità di dare il meglio di se stessi come esseri umani. Quel meglio visibile nel suo profondo desiderio di credere in qualcosa che vada oltre gli dei. Di esplorare, di sapere. E nel momento della scoperta, di rispettare ciò che si è trovato. Conciliando i valori più giusti delle proprie radici a quelli del nuovo mondo, di un nuovo popolo.

Che i vichinghi abbiano davvero conosciuto o meno le tribù indiane del Nord America e vi abbiano vissuto in pace e con giustizia, non ci è dato saperlo. Ma la storia voluta da Michael Hirst rientra indubbiamente tra le storyline più emozionanti di Vikings 6. Perché storie di assalti, guerre, prigionieri e morti, finalmente trovano pausa e respiro in una storia di convivenza e rispetto tra popoli. In cui tuttavia Hirst non disdegna di metterci in guardia dalla natura umana.

Ci piace credere che l’atto di giustizia che vede Naad morire sotto il pugnale di Ubbe per la sua febbre d’oro, sia la conclusione “a lieto fine” di una storia che ha in serbo migliori risvolti.

Non ci è dato sapere se sia andata davvero così ma ci basta per pensare che un’altra fetta dell’eredità di Ragnar sia stata omaggiata e portata avanti. Com’è accaduto con la sua eredità di grande leader, condottiero e vendicatore senza pietà, vissuta rispettivamente sulle spalle di Bjorn e Ivar e diventata immortale anche grazie a essi. E com’è accaduto con la parte più spirituale della sua eredità, ricaduta sulle spalle di Hvitserk.

Personaggio che sembra non aver non aver trovato mai pace e coerenza sin dall’inizio della sua storyline e non solo in Vikings 6. Come d’altronde considera lui stesso, privo – a differenza dei fratelli – di una moglie, di figli, di una fama ce lo precdeda che si stacchi almeno un po’ dal solo fatto di essere figlio di Ragnar.

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Così Vikings 6 decide di regalare a Hvitserk uno scopo, un senso. Una finalità sorprendente e inaspettata giunta alla fine di una battaglia che riporta lui e Ivar in Wessex, dove tutto era iniziato decenni prima.

E per quanto questo possa sembrare assurdo, chiude perfettamente il cerchio di una vita in cui Hvitserk non ha fatto altro che girare in tondo, prima seguendo un fratello poi un altro. La rinuncia definitiva a quella vita, ai suoi dei e a valori mai davvero seguiti o rispettati sembra il modo più giusto di far pace con se stesso e con l’ultima fetta di eredità di Ragnar rimasta. Quella dell’uomo che si era interrogato più e più volte su quel Dio cristiano adorato dall’amato Athelstan.

Del re vichingo che non temeva di indossare un crocifisso al collo e che si era fatto battezzare in Francia. Che fino alla fine dei suoi giorni aveva discusso di paradiso e Valhalla con Re Ecbert e che divideva un po’ il suo cuore tra il martello di Thor e la croce di Cristo. La morte di Hvitserk Lothbrok che lo porta a rinascere attraverso il battesimo come frate Athelstan, sotto lo sguardo di Re Alfred (figlio del vero Athelstan) è una conclusione inaspettata quanto potente.

Non solo rimanda in parte al declino storicamente vissuto dalle fedi norrene in quel periodo, in favore di una sempre più dilagante fede cristiana. Ma ci suggerisce anche la chiusura del cerchio iniziato tanti anni prima con Ragnar.
travis fimmel

Un uomo dalle mille sfaccettature, che non ha mai smesso di vivere attraverso il ricordo e le azioni dei propri figli. Che ha reso grande e al tempo stesso condannato il proprio popolo. Vikings 6 ci lascia così. Con uno sguardo alla bellezza di quel mare dominato da un grande popolo per secoli e secoli. E con l’idea non troppo lontana di un cambiamento sempre più vicino. Un cambiamento dal sapore di declino ma non di oblio. Perché nessuno potrà mai dimenticare il popolo di Odino. E nessuno potrà mai dimenticare Vikings.

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