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Definita da alcuni come la “Boris americana”, The Studio rischia, in questo modo, di essere ridotta a un semplice omaggio satirico alla produzione cinematografica. Ma sarebbe un errore sottovalutarla. Più che un mero divertissement, The Studio è un autentico capolavoro di scrittura fatto di irriverenza brillante, profondità e ironia sottile. Dietro l’apparente leggerezza si cela una critica pungente e sfaccettata al mondo dello show business. The Studio analizza le dinamiche di potere e le fragilità umane che animano chi lavora dietro le quinte della moderna Hollywood. La serie (che potete recuperare qui), grazie soprattutto ai suoi dialoghi brillanti e personaggi sfaccettati, riesce a raccontare il caos creativo e personale senza mai cadere nel cliché o nella parodia fine a se stessa. In questo articolo esploreremo ciò che rende The Studio un’opera che ridefinisce i confini della scrittura televisiva, mettendo al centro la complessità e l’anima autentica della narrazione.
The Studio e Boris, con le dovute proporzioni, condividono parecchi punti in comune
L’impatto che The Studio ha avuto sul pubblico italiano è direttamente riconducibile a un fenomeno cult del nostro paese: Boris. Le due serie, effettivamente, condividono alcuni elementi fondamentali. Una comicità pungente, un’irriverenza nei confronti dell’industria cinematografica e televisiva che non banalizza la critica sociale di fondo. E, soprattutto, due tipi di scrittura brillanti e che hanno regalato al pubblico personaggi iconici. Per noi italiani, Boris è quasi intoccabile (e, a suo tempo, è stata una vera rivoluzione): una serie metatelevisiva che esplora l’eccentrico mondo delle produzioni rappresentando brillantemente tutti gli stereotipi del settore. The Studio, per certi versi, fa la medesima cosa. La serie tv originale Apple TV+ è infatti piena zeppa di stereotipi sull’industria cinematografica americana. Stereotipi che vengono messi al centro di una narrazione che si sviluppa tra le colline di una Hollywood che sembra rimasta ferma in un tempo sospeso tra la magia patinata degli anni Sessanta e la crisi identitaria del cinema moderno.
La scrittura, in entrambi i casi, rappresenta un punto di partenza fondamentale. Chi più adatto a scrivere un’opera del genere di chi la vive quotidianamente? I famigerati sceneggiatori di Boris non sono soltanto tre dei personaggi più emblematici e caratterizzanti della serie, ma la proiezione comica delle tre menti dietro l’opera: Giacomo Ciarrapico, Luca Vendruscolo e Mattia Torre. The Studio — è giusto ribadirlo: con le dovute proporzioni — non differisce troppo da questa struttura. Seth Rogen è sia autore che protagonista in prima linea della serie. Lui e Evan Goldberg, altro autore di The Studio, sono un duo ben consolidato della comicità cinematografica statunitense. Seth Rogen, nello specifico, è in uno stato di grazia evidente. Perfettamente a suo agio nell’interpretare l’eccentrico e imbranato Matt Remick, neo-nominato capo dei Continental Studios.
L’arco narrativo di Matt Remick, tra le tante difficoltà episodiche, è scritto in modo chirurgico (e dispone di un cast a dir poco stellare)
Seth Rogen interpreta un uomo risoluto e brillante che, dopo tanti anni di sacrifici e gavetta, riesce finalmente a salire al vertice dei Continental Studios. Matt Ramick è pienamente a proprio agio nella nostalgica patina della Hollywood di The Studio. Per quanto millanti di essere legato a una certa cultura cinematografica che presuppone un certo tipo di qualità, inciampa continuamente nei suoi guilty pleasure. Saghe d’azione, sci-fi e horror comici di dubbio gusto sono alcune delle ombre che aleggiano sull’anima della Hollywood di un tempo, macina di capolavori indiscutibili. In questo senso, il Matt Ramick di Seth Rogen rappresenta la naturale evoluzione dello show business americano. La qualità che ha da tempo lasciato ampio spazio alla quantità, a quei prodotti trasversali che sono il vero oro delle case di produzione cinematografiche. Chi lavora ai Continental Studios vive il dramma comune di chi si nutre di cinema: dover dare, per necessità economiche, precedenza a ciò che funziona.
E’ così che il sogno di Matt Remick si affievolisce immediatamente. Dopo aver scalato la montagna apprende subito che i suoi ideali di qualità non avranno spazio. Ma essendo figlio di quello stesso sistema, si adatta subito. Ciò che importa a Matt è vivere quella sensazione adrenalina data dal potere decisionale misto al brivido della competizione. Magnati che si sfidano a chi la racconta più grossa. Tra la convivenza forzata con il sempre più pervasivo politically correct e la volontà di non scontentare nessuno tra attori e registi, il sogno di Matt si spegne sul nascere. The Studio prende per mano lo spettatore e lo guida — letteralmente con l’uso continuo del piano sequenza — attraverso i corridoi di una Hollywood sospesa nel tempo. Una Hollywood che non vuole rinunciare al patinato che l’ha resa celebre, alle macchine d’epoca e ai party esclusivi di cui ancora si narra.
L’immagine di una Hollywood in forte contrasto con ciò che rappresenta realmente: un’industria in crisi d’identità
Il tempo sembra essersi fermato ai fasti della seconda Golden Age del cinema americano, anche se le esigenze sono cambiate. Ciò che accomuna i protagonisti — la cui armonia è resa indissolubile dalla brillantezza dei dialoghi — è la sconfinata passione per il proprio lavoro. The Studio (di cui qui trovate la nostra recensione) avrebbe potuto raccontare la corsa all’oro hollywoodiano mettendo in risalto la parte negativa dello spirito competitivo che permea l’industria cinematografica. Invece ciò che emerge dal racconto della serie Apple TV+ è un sentore comune: l’amore, puro e sconfinato, per il cinema. Un sentimento più forte di qualunque contrasto lavorativo e di qualsiasi pressione esterna. In particolare, gli episodi The Golden Globes e The Presentation sono una vera e propria ode alla professione. Un’idealizzazione, certamente, che ha il nobile scopo di raccontare l’anima ancora viva e ardente di un settore troppo spesso sotto accusa.
Il viaggio di Matt Ramick, Sal Seperstein, Patti Leigh, Quinn e Maya è rocambolesco, pieno di scivoloni e abbagli, questo sì. Ma il desiderio comune di restituire al cinema — visto come una vera e propria entità — ciò che esso ha reso a loro, è sicuramente un elemento vivo all’interno della narrazione. L’episodio finale della prima stagione di The Studio racchiude al meglio lo spirito della serie. La comicità brillante lascia spazio ai sentimentalismi sinceri, senza rinunciare a quel tocco di follia che non può mancare in una serie che racconta uno dei mondi più ambigui e variopinti. È lecito che The Studio abbia fatto subito pensare a Boris, nel mercato italiano. Ma la serie Apple TV+ ha un obiettivo molto più complesso che va oltre la parodia: rendere omaggio al grande cinema.






