ATTENZIONE: l’articolo potrebbe contenere spoiler sulla quarta stagione di The Bear!!

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Ogni secondo conta. Sempre. In cucina come nella vita. La cosa difficile, semmai, è stabilire cosa rende un secondo speciale e degno di essere vissuto. Le soddisfazioni lavorative? Una stella Michelin? Un buon primo piatto mangiato in compagnia di una persona a cui si vuole bene? The Bear 4 sembra un’angosciosa corsa contro il tempo. Ma se si arriva all’osso di questa quarta stagione, ci accorgiamo che è un po’ un tentativo di dare una risposta a questo quesito. Il tempo corre. Il tempo non aspetta nessuno. E The Bear 4 inizia infatti con l’attivazione di un timer. È il secondo che fugge via, il tempo che non conta già più. Il countdown scandito dall’orologio che torreggia ineffabile in ogni episodio dello show è tutto il tempo che è rimasto alla brigata di Carmy (Jeremy Allen White) per tenere in vita il ristorante.
Ogni secondo conta. Sempre.
La differenza tra la sopravvivenza di un’attività e la chiusura dei battenti può farla un singolo istante speso male. Una preparazione troppo lunga, un piatto che arriva in ritardo sul pass, l’attimo di esitazione che fa arrivare il pasto freddo a tavola. Un cliente insoddisfatto, una decisione istintiva, un’incertezza di troppo. E alla fine si resta con il vuoto tra le mani, trafelati, stanchi e sfatti, senza più uno scopo. The Bear 4 è una stagione riflessiva, posata, meno esuberante e inquieta delle altre. I nuovi dieci episodi dello show creato da Christopher Storer sono approdati giovedì 26 su Disney+. Niente distribuzione settimanale, la quarta stagione è stata rilasciata in blocco, pronta per essere divorata in un’unica sessione di binge watching o lasciata a cuocere a bagnomaria, con episodi da guardare, metabolizzare, assorbire e (solo poi) andare avanti.
Non è una serie adatta a chi ricerca l’azione, il movimento, l’intreccio esplosivo e carico di materiale narrativo. The Bear è concitata, ma lenta. Inquieta e nervosa, ma diluita. Lievita un po’ per volta e, più si ha la pazienza di aspettare, più ne sarà valsa la pena. The Bear abbraccia il caos, accoglie le urla dei suoi personaggi, li avvolge in una baraonda di chiasso e frasi a sproposito. Ma si carica di significato proprio quando sta zitta, quando si ritrae e prende tempo. Nei momenti di silenzio. Nelle pause, nella dissolvenza in nero che separa una scena dall’altra, nei minuti spesi a fissare un orizzonte invisibile e distante. È questa una delle caratteristiche distintive della serie, questo uno degli aspetti che l’hanno resa così gradita a un certo tipo di pubblico.
E, ancora più che nelle altre stagioni, The Bear 4 fa un grande lavoro di scavo nel mondo interiore dei suoi personaggi. Va a fondo, oltre la crosticina croccante che si crea in superficie. Tasta il cuore morbido delle loro vulnerabilità, quello visibile solo a chi ha la pazienza di aspettare tutto il processo.
Un processo lungo quattro stagioni e che qui non ha più bisogno di preamboli. The Bear 4 parte dalle difficoltà con cui si era chiusa la terza stagione. Carmy, Richie, Syd e il resto della brigata sono riusciti a centrare l’obiettivo di aprire il ristorante. Ma mantenerlo aperto è ancora più complicato. Ci sono spese, perdite, costi che non riescono a essere ammortizzati. Tanti spettatori avranno riconosciuto nelle difficoltà incontrate dai protagonisti qualcosa di simile alle vite di tutti. Perché sono le difficoltà di ogni giorno, quelle che rendono difficoltoso tenere in piedi un progetto, al di là dell’impegno profuso per mantenere insieme tutto. The Bear parla di una realtà piena di ostacoli, di scogli insidiosi, di barriere e complicazioni. E di come le persone ci si confrontino.
Ma è soprattutto con le difficoltà interiori che bisogna fare i conti. Perché, al di là dei budget, dei ritardi nei pagamenti, degli sforamenti nei bilanci, la variabile da tenere sotto controllo è il proprio equilibrio interiore. Una condizione ben lontana dall’essere raggiunta. Carmy ha acconto la sfida di aprire il ristorante non solo con la convinzione di poter ottenere una stella Michelin, ma con la volontà di dimostrare a tutti che, nel suo campo, è il migliore. La sua idea di proporre ogni giorno un menu diverso ha rischiato di mandare in crisi il locale. Era un bisogno insopprimibile di mettersi alla prova? La volontà di spingersi oltre tutti i limiti per dimostrare al mondo di saperli superare?
La fiamma accesa di Carmy è stata in grado di infiammare tutti, ma ha rischiato anche di bruciare il raccolto frutto del duro lavoro.
Così il protagonista di The Bear è dovuto scendere a compromessi, tornando sui suoi passi e optando per delle scelte più sostenibili. Sydney (Ayo Edebiri) l’avevamo invece lasciata alla fine della terza stagione a un bivio: restare nella gabbia di matti del The Bear o accettare il lavoro (e le lusinghe) del ristorante concorrente?Essere il braccio destro di Carmy ha i suoi lati positivi, ma è anche una tormentosa discesa negli inferi. È esaltante e stimolante, ma rischia di intrappolarti in un circolo vizioso e trascinarti nelle voragini interiori di un personaggio lacerato. Anche in questa quarta stagione di The Bear, la scelta tra le due “case” è centrale per lo sviluppo del personaggio di Syd, che sembra fuori luogo ovunque.
Magari l’approdo finale è un po’ scontato, ma non è tanto quello che conta davvero. È tutto il tragitto fatto per arrivarci che è speciale. Come è speciale anche il percorso di Richie (Ebon Moss-Bachrach), uno tra i personaggi più dinamici di The Bear e il cugino a cui tutti abbiamo voluto bene come a un fratello. Nelle stagioni precedenti, abbiamo assistito alla sua graduale trasformazione. Da personaggio negativo, sempre arrabbiato e pieno di rancore, Richie ha cambiato se stesso fino a modificare le coordinate della propria vita. Il suo era un arco narrativo già proiettato in una direzione ben definita, ma gli episodi di The Bear 4 lo portano a uno stadio successivo. Per Richie è iniziato un percorso di assimilazione del dolore che passa per la consapevolezza che bisogna andare oltre.
Non ignora il dolore, lo trasforma in qualcosa di diverso, di più stimolante e vivido. Qualcosa per cui valga la pena essere sabbia e non sasso.
Ogni secondo conta, sempre. E Richie sembra aver maturato più di altri questa consapevolezza. La quarta stagione di The Bear ha il vantaggio di poter lavorare sui personaggi senza grossi preamboli. Sappiamo già con chi abbiamo a che fare, conosciamo i membri della brigata di Carmy, i loro difetti e le loro vulnerabilità. Per cui bastano pochi sguardi, qualche silenzio più significativo di un altro, un paio di primi piani forti e riusciamo a entrare in connessione con le loro fragilità. Su tutto lo show aleggia sempre la stessa drammatica assenza: quella di Micheal. E se nelle stagioni precedenti nessuno aveva avuto il coraggio di farci i conti sul serio, in The Bear 4 questa ferita viene scavata e allargata.
Carmy scende nel cuore delle sue fragilità, precipita nel vuoto lasciato dall’assenza di suo fratello e si schianta contro gli spigoli dolorosi del suo passato. È un percorso graduale (e ancora incompiuto), ma la quarta stagione della serie mostra una maturità che le precedenti non avevano. Inutile parlare dell’episodio del confronto tra Carmy e sua madre Donna (Jamie Lee Curtis), forse una dei passaggi più feroci di questa quarta stagione. Carmy ha avuto la forza di addomesticare i suoi istinti e abbattere i meccanismi di protezione che gli impedivano di aprirsi al mondo. Non è ancora nata una persona nuova, ma il cammino intrapreso in questa quarta stagione ha portato il suo personaggio a piazzare delle piccole bandiere lungo il percorso.
Il tempo che passa assume perciò un valore diverso. Non è solo l’istante che fa la differenza tra un piatto buono e un piatto eccezionale. Il tempo diventa una sorta di riconciliazione con se stessi. Qualcosa di cui riappropriarsi prima che il countdown batta i suoi ultimi rintocchi.
La quarta stagione di The Bear si muove dunque sulla falsariga delle precedenti. Non aggiunge pietanze in più, ma raffina quelle che ha già a disposizione. Gli ingredienti sono gli stessi, il risultato finale è ancora più prelibato. La cucina è ovviamente il fulcro dello show, i carboni ardenti sui quali si mettono a cuocere le pietanze. Ma, come sappiamo, il ristorante è solo un diversivo per allontanare da sé certi fantasmi e concentrare le energie su altro. La regia di The Bear è sempre efficacissima: la routine all’interno delle cucine, la scansione del tempo durante il servizio, le interazioni dei personaggi che collaborano alla buona riuscita del prodotto finale, sono seguite con un taglio registico nervoso e totalmente immerso nell’azione.
Si percepiscono la tensione, l’adrenalina e l’ansia da prestazione. Ma queste sequenze più concitate sono controbilanciate dal vuoto e dal silenzio che separano un “servizio” dall’altro. Momenti di riflessione scanditi da una regia impeccabile e da una scrittura sottile. Guardare The Bear – grazie anche allo strabiliante lavoro del cast – è un po’ come andare a cena al ristorante. Non è per placare il bisogno di mangiare che ci si riunisce attorno al tavolo di un ristorante. È per “sentirsi coccolati“ e condividere un pezzettino della propria giornata con le persone a cui si vuole bene. The Bear non si guarda solo per il gusto di intrattenersi davanti alla tv e abbandonarsi a un momento di evasione. Si guarda per riconoscersi nelle fragilità degli altri e sentirsi meno soli. Per sapere che ogni secondo può contare, e che ogni secondo è importante.