“Zero sono io” è qualcosa che abbiamo pensato tutti istintivamente guardando Strappare lungo i bordi, la nuova serie Netflix di Zerocalcare (qui trovate la nostra recensione). Sono sei puntate brevissime quelle che compongono la storia di Zero, Sara, Alice e Secco, eppure lasciano un segno profondo, sono sufficienti a scalfire la nostra corazza, a spogliarci dell’armatura di precarie certezze sulle quale contiamo per proteggerci da un mondo che va avanti senza di noi, che non si ferma ad aspettarci e non regala niente a nessuno. Guardiamo Strappare lungo i bordi e improvvisamente tutto si fa più chiaro, è un pugno allo stomaco e una carezza rassicurante al tempo stesso, è guardarsi allo specchio e vedersi davvero per la prima volta. Un senso di familiare smarrimento ci pervade, mentre ecco che viene soddisfatta la nostra esigente pretesa di riconoscerci e idealizzarci nelle storie delle serie tv. Una pretesa che avevamo già visto soddisfatta in modo quasi identico nella straordinariamente umana Fleabag, la grande serie di Phoebe Waller-Bridge che con il suo cinico realismo e quel senso dell’umorismo impiegato come difesa dal mondo ci aveva già fatto esclamare, inconsapevoli, “eccomi, sono io”.
“Strappare lungo i bordi” e “Fleabag” sono due facce della stessa medaglia, quella appesa al collo di una generazione a cui era stato promesso che avrebbe conquistato il mondo e che invece si è ritrovata a combattere contro solitudine e aspettative tradite.
Zero e Fleabag, protagonisti delle due serie, sono un simbolo, le loro parole rappresentano l’urlo silenzioso di tutti quanti non sanno come esprimere il disagio di fondo che accompagna le loro esistenze, che li priva di quel diritto alla felicità che sentono essere una promessa infranta. Sono simboli anche i loro nomi, Zero che sente di non valere nulla, di non esistere veramente, Fleabag che altro non è che un sacco di pulci, qualcosa la cui esistenza è un fastidio, un errore che dev’essere rimosso, allontanato, guardato con pietà ed evitato con decisione. Un nulla, tutt’al più una seccatura, ecco come si presentano a noi i protagonisti di “Strappare lungo i bordi” e “Fleabag”, senza nascondersi e anzi, desiderosi di stabilire un legame concreto con qualcuno che possa comprenderli davvero, come solo lo spettatore può fare. Le due serie diventano allora lunghi monologhi, i diari letti ad alta voce di due anime perse come in fondo lo siamo tutti, due voci che in fondo non sono che un’unica potente eppure insicura espressione di disagio e necessità di essere compresi. Una necessità che è anche nostra, è esigenza che ci dà forma, che ci rende quelli che siamo.
L’uso dell’umorismo nelle due serie è estremamente simile, perché frutto dello stesso desiderio di essere allo stesso tempo valvola di sfogo, espressione di pensieri che senza la protezione del sarcasmo ci renderebbero troppo vulnerabili e volontà di essere in qualche modo apprezzati, (anti)eroi alle prese con le complesse disavventure del mondo moderno. È valvola di sfogo nel momento in cui permette a Zero e Fleabag di raccontarci quanto accade loro ogni giorno senza i filtri di decenza e buon senso imposti dalla società, che richiederebbero un livello di autocontrollo soffocante in una vita che già li soffoca, mentre è una protezione da se stessi e dal loro dolore quando sia in Strappare lungo i bordi che in Fleabag i protagonisti fanno uso del loro peculiare senso dell’umorismo per raccontare episodi dolorosi, come fossero una lente che deforma una realtà troppo intensa, troppo palpabile, fino a essere insopportabile. Eppure quel sarcasmo marcato è anche l’unico modo che Zero e Fleabag credono di avere per potersi guadagnare l’approvazione altrui, un desiderio che nascondono, perché nessuno vuole ammettere di essere dipendente dagli altri, tutti vogliamo credere di essere in grado di cavarcela da soli e allora rifuggiamo le mani tese degli altri, salvo poi mendicare la loro attenzione quando possiamo farlo senza perderci la faccia.
Anche le tematiche affrontate dalle due serie e il modo di reagire dei protagonisti presentano analogie che non si possono ignorare, figlie del dolore comune di una generazione che non crede di poter ambire alla felicità, o anche solo alla stabilità, schiava di sensi di colpa onnipresenti e oppressa dalla sensazione di essere i soli a stare fallendo. Sia la prima stagione di Fleabag che quella di Strappare lungo i bordi affrontano nelle loro battute conclusive quella che per il pubblico è una rivelazione scioccante, quella del suicidio rispettivamente di Boo e Alice, morti diverse ma accomunate dalla devastazione che lasciano in Fleabag e Zero, che tentano con il loro umorismo tagliente di sviare dai sensi di colpa che la scomparsa delle amiche ha lasciato profondi nelle loro coscienze. Il monologo di Zero e la rottura della quarta parete di Fleabag servono per sviare lo spettatore dal dolore che li attanaglia, ma soprattutto a nascondere a se stessi una verità che non riescono ad accettare. E così, pur di non pensare a ciò che li sta divorando vivi, o alla solitudine che si è impadronita di loro, i protagonisti di Strappare lungo i bordi e Fleabag ci trascinano in un vortice di esperienze personali narrate attraverso la lente del cinismo, ci portano con sé in un viaggio che è una continua deviazione eppure diventa sempre più onesto, fino a rivelarsi nella sua totale sincerità alla fine.
Ci troviamo allora davanti a due racconti universali per le loro tematiche, che si rendono però unici grazie al contesto in cui prendono forma.
Se le tematiche, i toni, la struttura narrativa e persino i protagonisti di Fleabag e Strappare lungo i bordi sono incredibilmente simili, tanto da lasciarci quasi con l’impressione che siano la stessa persona che affronta due vite diverse, ognuna delle sue serie mantiene un’identità precisa e del tutto caratterizzante, tale da far sì che entrambe le storie siano ugualmente necessarie per lo spettatore, e che diano risposte proprie all’esigente domanda di immedesimazione che questo pone. Zero elabora la sua riflessione nella Roma di inizio secolo, laddove il tempo sembra promettere nuovi inizi ma il luogo è un ricordo costante della decadenza contemporanea, mentre Fleabag vive nel Regno Unito odierno, nella metropoli che si muove troppo velocemente mentre lei arranca. L’italianità di Strappare lungo i bordi è strabordante, eppure non sminuisce la forza della narrazione, e anzi la relega in un contesto che ne potenzia il messaggio. Fleabag invece è meno legata all’ambiente che circonda la protagonista, il legame con il territorio meno definito, facilitando allo spettatore anche al di fuori dal mondo britannico un senso di immedesimazione.
In spazi e tempi differenti, le due serie hanno saputo allo stesso modo farsi portavoce di una generazione tradita e smarrita, raccontandone il dramma senza privarle di un barlume di speranza e della possibilità di redenzione che sono sufficienti a dare forza a Zero e a Fleabag, ma soprattutto a noi, spettatori (in)consapevoli che abbiamo ascoltato le loro storie pensando, ancora una volta, “eccomi, sono io”.