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Skins è come un pugno nello stomaco

Skins è una serie televisiva britannica andata in onda tra il 2007 e il 2013, composta da 7 stagioni da circa dieci episodi ciascuna. Vincitrice del premio BAFTA, si è sempre contraddistinta per la delicatezza e, al tempo stesso, il modo crudo di raccontare ogni storia.

La depressione, i disordini alimentari, la tossicodipendenza, le malattie mentali e la morte: loro sono i protagonisti di Skins, vera essenza della serie. Gli attori servono a dare un volto alla perdizione, a impersonare le patologie donandogli una vita propria, a regalare degli occhi alla depressione.

Disponibile su Netflix, Skins vi terrà compagnia logorandovi piano piano con ogni storia, obbligandovi all’introspezione.

Skins

Quello che vedremo raccontato sarà un problema per ogni soluzione, l’angoscia di avere sedici anni e non sentirsi abbastanza, la paura del domani ma la voglia di raggiungerlo ancora integri. La perdizione è sul volto di ognuno dei protagonisti che si lasciano violentare da ogni particella di essa, accettando di cedere a lei invece che di combatterla. Le puntate vanno via veloci e il senso di inquietudine sembra sempre essere il piatto prelibato di Skins, che senza questa emozione non riesce a esprimersi davvero. Perché ogni serie ha la propria peculiarità, e questa è quella che caratterizza questa storia. Senza l’inquietudine Skins non esisterebbe. Non ci sarebbe Effy, non ci sarebbero le crisi, i momenti logoranti e angoscianti che sembrano portare alla tragedia e che hanno – spesso – come unica direzione un attentato fisico o mentale alla vita dei protagonisti.

I momenti di spensieratezza sembrano essere presenti con il solo obiettivo di ricordare che sono solo attimi. Vengono distrutti con noncuranza, ci tormentano e avviliscono senza lasciarci mai per un attimo indifferenti o distratti di fronte alla tristezza.

Ogni personaggio di Skins corre verso qualcosa e lo fa disperatamente cercando di trovare la propria pace, un momento che gli dia la giusta tregua per riuscire a farcela ancora per una volta, un segnale che li rassicuri che la loro inadeguatezza non è una condizione sbagliata, ma solo l’ovvia circostanza dell’adolescenza. Era in questi momenti di speranza che li vedevamo ballare disperatamente sui tetti dei palazzi più alti o scalzi sull’asfalto, in questi momenti che sembravano solo promettere che – nonostante ogni cosa – loro erano vivi.

Perché insieme alla sensazione di inquietudine, la peculiarità di Skins si trova proprio nella volontà di sentirsi sempre vivi: prendere tutto il dolore che c’è e assorbirlo significa sentire qualcosa, e sentire qualcosa implica essere vivi. Questo è il punto crociale di tutta la serie: questa volontà perennemente sviscerata in tutte le maniere possibili, l’unico desiderio di chi – tra un disastro e un crollo – cerca ancora speranza.

Sulla loro pelle viene assorbita ogni emozione a tal punto da renderla tattile. Il finale – il nostro definitivo saluto alla serie – ci costringe a venire a patti, ancora una volta, con l’introspezione e non ci permette altre vie di uscita. Perché per Skins è fondamentale che prima di fare qualsiasi cosa, noi comprendiamo noi stessi: siamo il fulcro della nostra vita, le nostre azioni sono determinate da noi e se veniamo a mancare noi allora tutto perderà valore, tutto si rovinerà. Proprio per questo la visione della serie si traduce come un pugno nello stomaco: ci inietta nelle vene una disperazione da cui dobbiamo uscire per salvarci da ogni patto con il lato malvagio che nascondiamo e che può spingere le persone a fare cose terribili.

Skins

Grazie a Skins abbiamo fatto parte di un viaggio meraviglioso che ci ha coinvolti portando all’estremo ogni nostro barlume di splendore e disperazione.

Abbiamo pianto, riso, ci siamo divertiti e poi subito dopo commossi. Ci siamo contraddetti, abbiamo cambiato idea sui personaggi innamorandoci di chi all’inizio sembravamo odiare, perché ognuno – con la sua storia – ha creato una propria dimensione dentro di noi che adesso non siamo più in grado di lasciare andare.

Le storie d’amore che vengono raccontate – nonostante il lato ovviamente romantico – pongono l’attenzione sulle difficoltà che i protagonisti nutrono nell’abbandonarsi a un altro essere umano, motivo per cui le relazioni narrate hanno sempre un sapore melodrammatico e reale. I ragazzi tendono spesso a nascondersi e scappare da qualunque rapporto sembra promettergli serenità per paura di perderlo e di non riuscire a poterne più fare a meno. Un meccanismo di difesa da cui, bene o male, a un certo punto sembrano staccarsi e che dona loro la libertà emotiva per cui hanno sempre lottato. Perché anche in questo caso amare qualcuno significa sentirsi vivi, e privarsi di tale sensazione li ha sempre un po’ uccisi. Così ogni bell’anima di Skins sembra fare due guerre: una con tutto quello che la circonda, e una con se stessa. Non è obiettivo della serie regalare una medaglia d’oro e decretare chi sia il vincitore di questa lotta. Quello a cui aspira ha una natura nettamente più profonda che si traduce, come abbiamo anticipato anche prima, nell’introspezione.

Dichiararsi guerra significa mettere la propria anima a nudo e questo costringe ogni personaggio a guardarsi dentro, comprendendo davvero ogni suo fantasma.

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Spesso ci siamo rifugiati dentro Skins nella speranza di trovare un angolo in cui sentirci compresi e che ci rivelasse che nonostante tutto potevamo sempre trovare il modo di farcela, che la felicità è un tragitto e non una destinazione come spesso abbiamo pensato durante la nostra adolescenza. Il viaggio all’interno di ogni storia è ormai finito da tanto tempo ma questo non ci ha mai allontanati dal ricordo indelebile che la serie ci ha lasciato, un bene prezioso da custodire senza farlo cadere nel tranello della dimenticanza. Siamo tornati a casa concludendo il lungo viaggio ma l’abbiamo fatto lasciando il bagaglio ancora pieno di tutto quello che abbiamo imparato.

E qualcosa mi dice che quella valigia, all’apparenza posata in un angolo dimenticato fatto di trascuratezza e ragnatele, non la svuoteremo mai.

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