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Sherlock: humor e thriller per una prima stagione sopra le righe

Nel lontano 2010 andava in onda per la prima volta sulla rete BBC One la stagione introduttiva di una delle più seguite e amate Serie Tv degli ultimi anni: Sherlock. Questa produzione ha una struttura ben delineata: la stagione, infatti è composta da 3 episodi, ognuno della durata di circa 90 minuti; potremmo dunque definirli più propriamente dei Film TV, ma le etichette contano fino ad un certo punto in questi casi. Le trame degli episodi (a cura della geniale scrittura di Mark Gatiss e Steven Moffat) sono liberamente ispirate ai racconti di sir Arthur Conan Doyle, in particolare a “Uno studio in rosso”, “L’avventura degli omini danzanti” e “L’avventura dei piani Bruce-Partington”.

Gli straordinari interpreti di Sherlock sono Benedict Cumberbatch nei panni del noto investigatore e Martin Freeman in quelli del dottore John Watson: la scelta del cast è, come si può notare, ovviamente molto british. Particolare caratteristico della serie è l’ambientazione: le avventure di Holmes e Watson non si svolgono nell’età Vittoriana che ci aspetteremmo, ma nel nostro XXI secolo; eppure, in Sherlock, vivere la contemporaneità è relativo, visto che a volte il 2010 sembra molto più vicino alla fine dell’800 di quanto non lo sia al presente.

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La prima stagione di Sherlock si distingue dalle altre soprattutto per la maggiore attenzione dedicata ai singoli casi affrontati da Holmes: infatti, a differenza delle stagioni successive, l’ombra del villain e nemesi del protagonista, Moriarty, appare solo a piccole dosi (venendo semplicemente nominato o citato), per poi fare una breve comparsa nell’ultima puntata (Il grande gioco). In pratica, nella prima stagione the game is not on yet; questa azione preparatoria è strutturalmente perfetta, perchè lo spettatore segue le vicende del tassista serial killer di Uno studio in rosa in maniera totalmente astratta da possibili colpi di scena; si aspetta invece l’intervento di Moriarty nella seconda puntata (Il banchiere cieco), rimanendo a bocca asciutta; viene sconvolto nella terza puntata, che apre ad una conclusione completamente ad effetto, visto che oltre a chiudere la prima stagione, apre con forza alla seconda. Potremmo dunque dire che nella prima stagione quella di Moriarty è più un’ombra che incombe sui protagonisti, impegnati in meno importanti e decisive indagini ma comunque già pedine di un gioco più grande di loro.

La scorrevolezza e la facilità con cui si riesce a vedere una puntata di 90 minuti è disarmante; la spiegazione a questo fenomeno è solo una: Sherlock è scritta divinamente.

Gatiss e Moffat dimostrano di essere dei maestri dell’adattamento, visto che partono da una base (ottima e di successo) come quella dei racconti di Conan Doyle, ma ci costruiscono attorno una trama così logicamente coerente e squisitamente intrigante che gli scettici al proposito della ambientazione nel XXI secolo dovranno ricredersi: lo spettatore quasi non si accorge che la storia si ambienta nel 2010, se non fosse per le tecnologie e il modo di esprimersi dei protagonisti. Quello che realmente conta in una storia è il tono: Sherlock ha un tono che trasporta l’osservatore in un luogo atemporale, in cui si è troppo presi dalla storia e dalle rapide deduzioni del protagonista per pensare a fattori relativi come “in che anno siamo?“.

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La geniale trovata di scrivere sullo schermo le deduzioni che Sherlock fa alla velocità della luce quando osserva qualcosa o conosce qualcuno è accompagnata da due elementi apparentemente contraddittori, ma che si sposano alla perfezione: l’humor e il thriller. Il primo, in una serie così british, non può mancare, ed è brillantemente sostenuto da Cumberbatch e Freeman; il secondo, essendo Sherlock una serie crime, è la linfa principale della storia, attenta a non cadere nel troppo dark o nel troppo soft. Quello che dunque colpisce di Sherlock è il dinamismo: il ritmo delle puntate è forsennato, la velocità delle deduzioni e degli eventi danno l’idea della rapida intelligenza del protagonista, mentre per fortuna John Watson segue il passo degli spettatori e attende con essi maggiori spiegazioni. Geniale.

La questione dell’ispirazione dai racconti, nella prima come nelle stagioni successive, è per i fan del personaggio non meno importante del resto; per questo colpisce come uno Sherlock Holmes ambientato nel 2010 abbia più elementi comuni con quello dei libri di uno (quello cinematografico) ambientato nell’epoca vittoriana di Conan Doyle. Se da un lato l’atteggiamento del protagonista della serie (fin troppo scorbutico) lo allontana dall’idea di “Sir” che lo scrittore aveva in mente nell’800, d’altro lato Cumberbatch incarna l’investigatore alla perfezione, per caratteristiche come il portamento, il tono della voce e il modo di giungere alle conclusioni.

È vero che il tema del travestimento (fondamentale nello Sherlock dei libri) è praticamente assente, ma è anche vero che quello degli esperimenti e dell’interesse per la chimica è fortemente presente, come la passione per la pipa, sostituita nella serie dai cerotti alla nicotina. Questo è quello che si chiama adattamento: non una fredda rappresentazione viva dell’inchiostro utilizzato un secolo e mezzo fa, ma un’ispirazione che si traduce spesso in una personale citazione; indimenticabile, infatti, è la fedele trasposizione del primo dialogo tra Holmes e Watson, la cui parola chiave è “guerra in Afghanistan“.

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La regia, come è chiaro, è conseguentemente brillante: Paul McGuigan eleva il pilot e il terzo episodio attraverso il tema della frenetica ricerca, regalando due episodi molto mobili. Euros Lyn dirige invece il secondo episodio, a suo modo più lento, come è giusto che sia per una puntata mediana. Quello che però lascia in ogni caso a bocca aperta è la gestione della fotografia (è vero, Londra fa la sua parte semplicemente con la sua esistenza) e delle musiche, fra le quali merita particolare menzione la sigla di apertura, che lascia intendere le scene a tratti psichedeliche a cui andremo incontro.

In attesa dunque di poter valutare la quarta stagione nella sua completezza, mi sembra doveroso sottolineare che la prima stagione di Sherlock sia al momento la migliore: l’effetto novità ovviamente gioca un ruolo fondamentale, ma anche la citata attesa di un vero nemico conferisce quella marcia in più, persa nelle stagioni successive. “Non c’è niente di più sfuggente dell’ovvio”, sostiene Sherlock Holmes: per fortuna l’ovvia bellezza di questa Serie Tv non ci è sfuggita.

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