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Cosa ci stanno dicendo di buono le ultime Serie Tv Rai

C’è stato un tempo in cui la voglia di innovare delle serie tv Rai poteva essere racchiusa in un esperimento come ‘Tutti pazzi per amore’. Una serie che provava a rappresentare un unicum nel panorama italiano (e per i primi tempi fu vista effettivamente come tale) per il linguaggio, per i riferimenti cinematografici spammati in maniera ardita, per gli inframmezzi musicali che permeavano gli episodi, nel tentativo di rimandare a quei crossover musical/telefilm che avevano arricchito la qualità delle serie americane (Buffy, Scrubs, Glee…).

Ben presto questi pur apprezzabili tentativi furono vanificati da vari elementi: una scrittura che non aveva ancora la forza di imporsi ed evolversi, di accompagnare i progressi fatti, ad esempio, nel linguaggio e nella recitazione meno impostata, finendo per sviluppare una trama facilona, poco realistica e troppo improntata sul lieto fine. ‘Tutti pazzi per amore’ finì così per diventare il prototipo della serialità televisiva descritta da Boris (qualcuno è arrivato a sostenere che il monologo sulla locura sia ispirato esattamente a questa fiction).

Eravamo agli albori degli anni ’10. Da allora, grazie alla pay tv prima e alle piattaforme streaming, gli italiani hanno cominciato a farsi la bocca buona anche con diverse serie tv nostrane. Non occorre menzionare le solite note, conta solamente osservare che, a un certo punto, anche la tv pubblica ha dovuto adattarsi. Escludendo le produzioni internazionali come L’Amica Geniale o Leonardo, i primi esempi virtuosi possono essere considerati La Linea Verticale o La Porta Rossa.

In generale non sono cambiati gli sceneggiatori, o almeno non sempre, ma è cambiato il contesto socioculturale nel quale essi hanno potuto esprimersi. Per intenderci, uno degli sceneggiatori della succitata ‘Tutti pazzi per amore’, Stefano Bises, è uno dei più apprezzati nel nostro paese e ha collaborato con Gomorra, Il Miracolo, The New Pope. Molto banalmente, i tempi sono stati finalmente maturi affinché potessero osare di più, approfondire altre dinamiche, trattare alcune tematiche com’è giusto venissero trattate nel tempo in cui viviamo.

Insomma, ci sono diversi fattori per cui è diventato “cool” anche guardare le serie tv Rai, nel mare magnum della proposta seriale a cui siamo esposti oggi

Comunque una faccia caratteristica come quella di Antonello Fassari potrebbe essere il prototipo di un ulteriore progresso della serialità italiana

Ci siamo evoluti tantissimo anche nella recitazione, col tempo diventata più gergale e meno perfettina (a livello di dizione), meno “italiana”. Abbiamo fatto dei progressi immensi nella regia e in una fotografia che non è più l’escalation di ‘smarmellate’ di ducciana memoria. Sia che stiamo guardando un medical come ‘Doc’ o un prison drama come ‘Mare Fuori’ possiamo notare come la macchina da presa si muova in maniera più fluida ed è (quasi) perfettamente contestualizzata nel ‘mood’ delle scene. Senza esagerati scavalcamenti di campo, primi piani stucchevoli o montaggi artefatti.

C’è però un punto sul quale i progressi hanno assunto la dimensione di veri e propri passi da gigante: il bilanciamento tra tragedia e commedia. Le serie tv italiane hanno sempre avuto dei tempi comici più che soddisfacenti, non solo in veri e propri capisaldi della nostra serialità come Boris. Anche guardando I Cesaroni, oppure Massimo Boldi e Maurizio Mattioli che traslano le loro gag da cinepanettone in Un Ciclone in Famiglia, non dobbiamo vergognarci ad ammettere che una risata ci scappa.

Dove spesso i prodotti nostrani hanno lasciato a desiderare è nel rispettare i topos della tragedia, classica o postmoderna che sia. Imbrigliati dalla necessità di rendere il prodotto più commerciale possibile – e quindi fruibile a qualsiasi spettatore – ci siamo auto applicati talmente tanti filtri da non risultare credibili, a prescindere dal genere in questione. Tra tematiche sociali scientemente non trattate, ma solo ammiccate e la ricerca di essere il meno espliciti possibile, abbiamo dato vita ad alcuni mappazzoni che hanno inevitabilmente inficiato la qualità di un’opera. E lasciato soltanto in mano ai prodotti delle pay-tv la possibilità di osare e ridurre la distanza con la serialità americana.

Nell’ultimo anno, e ancor più negli ultimi mesi, abbiamo raccolto i frutti di un cambiamento, lento ma graduale, dovuto anche alla crescita esponenziale dell’offerta di RaiPlay, che ha saputo intercettare gli interessi e i bisogni dello spettatore italiano come nemmeno il corrispettivo generalista è riuscito a fare, aiutando al tempo stesso la Rai a ridefinire nuovi linguaggi e nuovi schemi narrativi da proporre al grande pubblico, “stanco di pagare il canone solo per vedere Don Matteo“.

Dei tre prodotti che citeremo, Un Professore è quello più ricco di difetti, ma che proprio per questo diventa emblematico del cambiamento in atto.

Un Professore

La scuola, così com’è rappresentata nella serie, è una scuola puramente ideale, con nessuna aderenza alla realtà. Allo stesso modo il prof protagonista, come quasi sempre accade ai prof protagonisti, cade nello stereotipo de L’attimo fuggente. Un insegnante anarchico, sui generis, che rifiuta qualsiasi convenzione in un mondo rigido come quello dell’istruzione, riuscendo proprio per questo a fare breccia nel cuore degli studenti. Non giriamoci intorno, l’abbiamo già visto migliaia di volte.

Tuttavia Alessandro Gassmann ha carisma da vendere per reggere tutta la serie sulle proprie spalle, riuscendo a legare e a districarsi tra le varie storyline. È riuscito a dare complessità e intimità al personaggio, cosa evidente soprattutto nell’aspetto ‘mistery’ della serie, legato al suo passato, la parte più interessante dell’opera. Detto che la qualità recitativa della serie è molto alta e che tutti i personaggi sono ben sfaccettati, non è banale il rapporto padre-figlio così come viene rappresentato.

Allo stesso tempo non è banale la trattazione della variabile dell’omosessualità che si va a inserire in quella dinamica, qui con una funzione normalizzante e priva di stereotipi. Da qui si può evincere che, nonostante diversi difetti strutturali e la talvolta mancata sospensione dell’incredulità, Un Professore è una serie tv calata perfettamente nel hic et nunc. Un po’ come quelle serie Netflix di seconda o terza fascia, che hanno molto successo perché sanno come parlare al pubblico che le sta guardando. Sì, sto parlando proprio di Emily In Paris.

Blanca è il modo con cui le serie tv Rai ci insegnano che un crime può essere leggero, ma credibile

Blanca è una ventata di freschezza, proprio come la sua protagonista che, come abbiamo potuto constatare anche a Sanremo, ha l’indiscutibile pregio di farsi voler bene. Questa serie riprende praticamente tutti i topos della serialità americana, ma riesce a preservare una propria identità, poiché li declina in una realtà 100% made in Italy. I flashback, i vari livelli di sottotrame, la complessità dei casi calati nel contesto genovese, il quale diventa parte integrante e fondamentale del racconto. E questo è un grandissimo pregio per un crime.

Per il resto crime sì, crudo in alcuni casi investigativi, ma comunque con un tone of voice leggero. E, alla luce di tutto questo, credibile. Più vicino a prodotti come Montalbano o Coliandro e meno a Don Matteo, per intenderci, con l’aggiunta ulteriore di una trama orizzontale più marcata e sviluppata delle due serie sopra citate. E poi c’è Maria Chiara Giannetta che, con la sua ironia e la sua espressività, sintetizza perfettamente quell’equilibrio tra tragedia e commedia, prodromico di questa rivoluzione, di cui parlavamo in precedenza.

Mare Fuori: qualità allo stato puro

Mare Fuori rappresenta la summa di questo discorso sulla qualità delle serie tv Rai, perché ne raccoglie insieme tutti gli aspetti positivi sopra evidenziati. Una serie coraggiosa con un taglio estremamente crudo e realistico; con una critica sociale forte, una colonna sonora ad hoc bellissima e un’allegoria, resa evidente già dal titolo, su quanto sia sottile il confine tra bene e male. Tra la retta via e la selva oscura.

Anche in questo caso – anzi: soprattutto in questo – il livello della recitazione fa la differenza: il cast, corale, si destreggia molto bene tra l’italiano e l’uso del dialetto napoletano, senza mai risultare sopra le righe. La frase ad effetto è funzionale all’efficacia di una battuta, non fine a se stessa come avviene in taluni casi in Gomorra. Anche qui c’è un forte rimando alla tradizione dei prison drama, declinati in un contesto ancor più peculiare, come quello di un istituto penitenziario minorile di Napoli.

Napoli è protagonista della narrazione, proprio in virtù di una funzione allegorica che, dal titolo, permea ogni aspetto della serie. Il dualismo dei personaggi, tutti, nessuno escluso, li rende oltre che fortemente sfaccettati, anche straordinariamente dinamici. Che, a proposito del voler osare, non si tirano indietro nel mostrare quanto possono essere crudeli: tra i momenti più disturbanti della serie ricordiamo un ragazzo costretto a mangiare, a sua insaputa, il proprio cane. Non proprio all’odg sulla tv pubblica.

Un taglio explicit che si manifesta anche quando la serie dimostra di sapersi calare perfettamente nel contesto in cui viviamo. Nella seconda stagione, che complessivamente è inferiore alla prima, c’è una riflessione sul consenso e sulla violenza sessuale che viene calibrata e poi sbattuta in faccia allo spettatore nell’ultimo episodio con una potenza quasi mozzafiato.

Poi, ovvio, non tutto è rose e fiori. Ci sono alcune forzature di trama e alcuni espedienti molto pigri, i peggiori proprio nel finale della seconda stagione; va anche tenuto conto del fatto che i mezzi Rai non sono i mezzi Sky, ragion per cui gli effetti speciali risultano più artefatti. Tuttavia non bisogna aver paura di ammettere che Mare Fuori gioca nello stesso campionato di Gomorra e Romanzo Criminale. Cosa affatto banale per una serie tv Rai fino a pochi mesi fa.

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