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Tulsa King – Recensione della serie con Sylvester Stallone, su Paramount+

ATTENZIONE: proseguendo nella lettura potreste trovare spoiler su Tulsa King

Il lupo perde il pelo ma non il vizio. Si potrebbe benissimo tradurre in questo iconico proverbio l’essenza di Tulsa King, la nuova serie targata Paramount+, con protagonista Sylvester Stallone, alla sua prima partecipazione a un progetto televisivo di ampio respiro dopo un cameo in This is Us.
L’attore italo americano è stato il primo a essere contattato e ingaggiato per la serie. A farlo è stato niente meno che Taylor Sheridan che della serie è l’ideatore e sceneggiatore del pilot. Il creatore di Yellowstone e i suoi prequel, sceneggiatore di Sicario e Soldado ha lavorato al soggetto e scritto il primo episodio durante la prima settimana della pandemia da COVID19. Poi però, ha dovuto cedere il ruolo di showrunner perché impossibilitato a portare avanti il progetto avendone in cantiere diversi altri. Così, il compito di sviluppare la prima stagione è stato assegnato niente meno che Terence Winter, creatore di quella meraviglia che è Boardwalk Empire e sceneggiatore di I Soprano e The Wolf of Wall Street per il quale ha ottenuto una candidatura all’Oscar come miglior sceneggiatura.
Per la cronaca: è di questi giorni l’abbandono da parte di Terence Winter che lascia Tulsa King a causa di contrasti creativi con Taylor Sheridan, nonostante il rinnovo della serie per una seconda stagione. Al momento non si sa chi prenderà il suo posto, vi terremo informati

Sylvester Stallone interpreta Dwight “The General” Manfredi, un gangster vecchio stampo appartenente a una delle famiglie newyorchesi di Cosa Nostra. È appena uscito di prigione dopo aver scontato venticinque anni di prigione per aver commesso un omicidio e pretende, giustamente per non aver parlato, di riprendere il suo posto all’interno del clan di appartenenza. Di fronte al boss invecchiato e gravemente malato, interpretato da A.C. Peterson, gli viene però proposto di trasferirsi a Tulsa, Oklahoma, per avviare nuove imprese criminali. Dwight Manfredi è un uomo d’onore e accetta pur sottolineando in maniera piuttosto netta il suo disappunto. Lui non le manda a dire ma la proposta che gli viene fatta è una di quelle che non si possono rifiutare.
Così The General raggiunge Tulsa e fa la conoscenza di Tyson, interpretato da Jay Will, tassista con il desiderio di fare ben altro nella vita, e Bodhi, interpretato da Martin Starr (Silicon Valley), proprietario di un coffee-shop che rivende erba prodotta dagli indiani, indigeni del luogo. Il primo diventa l’autista di Dwight Manfredi, il secondo, invece, suo socio in affari.
Il clan si ingrossa mano a mano che il personaggio di Stallone fa conoscenze in giro per Tulsa. Dapprima si aggiunge Mitch, interpretato da Garrett Hedlund, ex galeotto ed ex star dei rodei e attualmente proprietario di un locale notturno. Poi Armand, interpretato da Mac Casella, ex compare di Manfredi a New York che si rifugiato a Tulsa per rifarsi una vita. Naturalmente, affinché tutto funzioni al meglio, occorrono altri ingredienti. Un villain, Caolan Waltrip, interpretato da Ritchie Coster, a capo di una spietata banda di bikers il cui business è seriamente minacciato dall’arrivo di Manfredi. E almeno una complicata storia d’amore tra il protagonista e un’agente dell’ATF, Stacy, interpreta da Andrea Savage.

Jay Will e Sylvester Stallone 640×360

Attorno a questo nutrito gruppo di stravaganti personaggi, ciascuno con la propria drammatica storia, se ne aggiungono altri che compongono un interessantissimo affresco e fanno di Tulsa King una serie davvero piacevole da guardare. Perché queste nove puntate non parlano semplicemente di gangster, traffici illeciti e morti ammazzati ma anche di rapporti umani, prevalentemente famigliari, e lo fanno con un certo sguardo, una certa attenzione, evitando di trascendere in inutili colate di appiccicosa melassa. D’altro canto, con al comando due del calibro di Sheridan e Winter, capaci di creare personaggi ricchi di sfaccettature, non ci si poteva aspettare niente di meno.

La storia, di per sé, non racconta niente di nuovo perché gli ingredienti sono più o meno gli stessi, già visti in altre serie simili. Ma come quasi sempre accade se gli ingredienti, per quanto eccellenti, sono mal mescolati il risultato può essere un vero disastro. Fortunatamente per noi non è questo il caso. Tulsa King non è un capolavoro ma ha delle peculiarità tali da renderlo davvero un validissimo prodotto, una serie da guardare, da gustare e da condividere con gli amici. Uno di questi, per esempio, è stata l’ottima idea di rilasciarne una puntata alla settimana (l’ultima, in Italia, è stata trasmessa il 12 febbraio scorso). In un periodo di binge watching, a volte compulsivo, un episodio alla settimana fa apprezzare al meglio ogni dettaglio lasciando quella piacevole curiosità al termine di ciascuna puntata. Sono costruite infatti in maniera tale da non lasciare in sospeso questioni particolarmente intricate ricordando un po’ gli ormai lontani fine anni Novanta. Una trama che si dipana nelle nove puntate è poi una delle prerogative del lavoro di Taylor Sheridan il quale ha sempre sostenuto di preferire dedicarsi ai personaggi, approfondendo la loro psicologia, anziché mischiare eccessivamente le carte.

Tulsa King
Scarlet Rose e Sylvester Stallone 640×360

Un altro interessante ingrediente è certamente l’umorismo che non risulta mai eccessivo né tanto meno fuori luogo. L’inseguimento, per esempio, di Stallone durante il suo esame della patente è drammatico e al tempo stesso esilarante. Apparentemente eccessivo in realtà risulta, nell’ottica di una serie televisiva, perfettamente credibile e termina con la sua visita in ospedale all’istruttore, con le ossa rotte e in stato di choc. Ogni personaggio, a modo suo, è dotato di un certo humour che fornisce ai dialoghi un tocco di leggerezza e di quotidianità né scontate né ridicole.
Le vicende famigliari, poi, non pesano affatto, anzi: danno verosimiglianza alla storia e le permettono di avere quell’ ampio respiro che porta avanti la narrazione tra una scena d’azione e l’altra. Tyson, che ha deciso di intraprendere la carriera di gangster se la deve vedere con il padre il quale ovviamente non è d’accordo. Armand, invece, ha nascosto alla moglie di essere un ex criminale e quando quest’ultima lo scopre il divorzio è dietro l’angolo. L’anziano boss di New York non apprezza il figlio che non assomiglia a Dwight Manfredi creando una tragedia greca all’interno della stessa famiglia mafiosa. Anche per il villain ci sono problemi famigliari: i suoi scagnozzi non sono all’altezza della situazione, e tra incursioni fallite e doppi giochi, sono incapaci di reggere al violento impatto che ne deriva dallo scontro con un rappresentante della mafia. E infine Stallone, che dopo venticinque anni di prigione cerca di riallacciare i rapporti con la figlia, interpretata da Tatiana Zappardino, ormai adulta e ritrovata al funerale del fratello per il quale ha scritto una toccante lettera che non è in grado di leggere per la commozione.

Poi, su tutti, c’è lui, Sylvester Stallone: il Re di Tulsa. All’inizio lo vediamo uscire di prigione dopo venticinque anni. La serie è ambientata ai giorni nostri, è possibile, dunque, datare l’inizio della sua prigionia intorno alla fine degli anni Novanta. Ritrovandosi completamente lontano dal mondo moderno Stallone riesce a interpretare bene quello che si trova smarrito, confuso e incapace, almeno all’inizio, di adattarsi alle nuove diavolerie, non solo tecnologiche. C’è un che di autobiografico in questa interpretazione, una sorta di leitmotiv costante che lo accompagna in tutti e nove gli episodi. Stallone, presente praticamente in ogni scena, non inventa nulla per interpretare The General: è semplicemente se stesso. Nemmeno l’età nasconde. Perché non ne ha bisogno. Ogni suo gesto, ogni suo smorfia, ogni sua parola, ogni sua battuta sono impregnate della sua carriera, dei suoi personaggi storici. È come se con questo personaggio Stallone avesse fatto la sintesi di tutto il suo lavoro e l’avesse concentrata tutta per interpretare questo gangster con un certo fascino e un certo ascendente, non solo sulle donne.

tulsa King
Tulsa King 640×360

Il personaggio di Stallone piega il mondo che lo circonda nelle sue mani dimostrando di avere radici solide che lo tengono bene ancorato a terra. A differenza dei suoi avversarsi è poi dotato di una flessibilità tale che gli permette di vincere senza troppo sforzo. Stallone è decisamente a suo agio, si muove all’interno della sceneggiatura regalando momenti incredibilmente emozionati. Dalla battuta più sciocca che fa cascare le braccia al momento più toccante con la figlia (finta perché nella serie ha un particina anche quella reale, Scarlet Rose) il personaggio di Stallone è così forte da attirare su di sé le simpatie e il tifo del pubblico. È un cattivo, un mafioso, un assassino, certo. Al tempo stesso è quel personaggio del quale tutti hanno bisogno per dare una svolta alla loro vita.

Come un grosso iconico totem Stallone giganteggia in questa serie dando l’impressione di trovarsi perfettamente a suo agio anche sul piccolo schermo. Lo fa con le sue capacità e con i suoi limiti rendendo il personaggio davvero interessante, con le giuste ricorrenze ma anche con intriganti punti di forza. Si capisce, infatti, che attore e protagonista sono entrambi anziani ma è chiaro anche che hanno dalla loro hanno una incredibile quantità esperienza da distribuire generosamente ai discepoli che ascoltano attentamente e fanno tesoro dei consigli ricevuti non limitandosi alla semplice figura di contorno.
Tulsa King è davvero una piacevole sorpresa. C’è da sperare che il cambio di showrunner non faccia calare la qualità della seconda stagione che, in tanti, attendiamo venga trasmessa al più presto su Paramount+.