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The Institute – La Recensione dei primi 2 episodi: dobbiamo aspettarci un pop senza ambizione (o quasi)?

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Atmosfere che strizzano l’occhio a Stranger Things, la sigla che richiama From, un romanzo dello Zio Stephen King e la regia di Jack Bender. The Institute è questo, e molto altro. La serie prodotta da MGM+ insieme a Spyglass Media Group ci ha attratti come il miele con le api. E diciamocelo: bastava il nome di Jack Bender per farci venire l’acquolina in bocca. The Sopranos, Lost e – più di recente – la stessa From. Inutile girarci intorno: con un curriculum del genere e non poca esperienza con l’universo kinghiano (Mr. Mercedes, vi dice qualcosa?), le aspettative per questa serie tv erano – e restano – altissime.

The Institute si compone di 8 episodi. I primi due sono già disponibili su Amazon Prime Video (per chi ha l’abbonamento a MGM+), mentre i restanti arriveranno a rilascio settimanale.

Luke Ellis, The institute Credits: MGM+
Credits: MGM+

Rilascio settimanale che, probabilmente, non gioverà in modo particolare alla serie tv (contrariamente ad altre serie tv che sono state rilasciate in blocco, ma che ci sarebbe piaciuto vedere settimanalmente).

I primi due episodi avranno indubbiamente soddisfatto il palato dei fan kinghiani, seguendo la linea tratteggiata del romanzo, un po’ come bambini impegnati a ritagliare con forbici dalla punta arrotondata. Scorrono via lisci, senza intoppi, ma anche senza troppi sussulti. Insomma, non siamo qui con il fiato sospeso, in trepidante attesa del prossimo episodio. Conseguenza di una struttura narrativa che, forse, meglio si conciliava con una golosa sessione di binge watching.

Tuttavia, ai blocchi di partenza emerge la performance attoriale del giovane Joe Freeman (sì, proprio il figlio del Martin Freeman di Sherlock, True Detective e tante, tante altre), che nei panni del protagonista Luke Ellis regala qualche guizzo interessante a The Institute. Ma andiamo per gradi.

Se dovessi dire cosa mi è piaciuto di più di The Institute, non avrei dubbi: la sigla.

Tim in The Institute Credits: MGM+
Credits: MGM+

Lo abbiamo detto e lo ripetiamo: la sigla di The Institute urla From da ogni nota e fotogramma. Certo, questa volta non abbiamo “Que sera, sera” in sottofondo, ma una bellissima cover di “Shout” dei Tears for Fears, reinterpretata dal gruppo americano The Lumineers (anche per la sigla non si sono fatti mancare i VIP). L’avanzare ondeggiante delle immagini e il ritmico mescolarsi di violenza, gioia desaturata e lugubre desolazione, ci fanno assaggiare fin dal principio la medicina amara dell’Istituto. Ci disturba e ci intriga come un romanzo di Stephen King.

Non è una sigla geniale, è una bella sigla che ci fa l’occhiolino, proprio come queste prime puntate e, potenzialmente, l’intera serie.

Forse è ancora presto per giudicare, ma l’immagine sfuocata dei primi due episodi traccia le linee guida di un ritratto che oserei definire pop, ma senza ambizione. Sì, perché se socchiudiamo gli occhi e ci soffermiamo sui corridoi tetri e sui poster scintillanti, ci sembra quasi di vedere una Stranger Things che ha smesso di giocare con gli anni ’80 (d’altronde, lo stesso Stephen King non ha mai nascosto il suo apprezzamento per la serie tv dei fratelli Duffer).

Allora cosa sta mancando a The Institute? La risposta è sotto il nostro naso: il genio.

Luke Ellis durante gli esperimenti in The Institute. Credits: MGM+
Credits: MGM+

Ripercorrendo un po’ la trama di questi due episodi, sappiamo che gruppi di bambini e adolescenti con poteri paranormali vengono rapiti (o meglio, reclutati) da un’organizzazione di cui non sappiamo la natura, per condurre degli esperimenti. Nello specifico, i bambini si dividono in due categorie a seconda dei loro poteri: TK (telecinesi) e TP (telepatia). E non tardiamo a comprendere che il buon Luke è un bambino speciale tra i bambini speciali, con un quoziente intellettivo fuori dalla norma.

Adolescenti straordinari, cospirazioni e paranormale sono pane quotidiano quando si parla di Stephen King, e la cosa non sorprende più di tanto (soprattutto per chi ha già letto l’omonimo romanzo). Non stupisce neanche la trama parallela con protagonista Tim Jamieson (Ben Barnes): ex poliziotto dal passato tormentato che cerca di rifarsi una vita in un paesino del Maine, e trova tutt’altro che tranquillità.

Inutile dirlo, i personaggi in The Institute sono ben scritti (grazie Zio King), e la trama ha del potenziale, ma a lasciarci con un po’ di insoddisfazione è proprio la mancanza di spessore dei dialoghi.

Il cast di The Institute. Credits: MGM+
Credits: MGM+

Ciò che abbiamo visto di The Institute vuole essere pop a tutti i costi, ma si adagia fin troppo su elementi che il pubblico ha già visto e a cui siamo fin troppo abituati. Questo, tuttavia, non ci impedisce di godere della serie in questione. Ci sono tante domande a cui vogliamo trovare una risposta, e misteri che aleggiano nell’aria come gli arzigogoli di fumo sprigionati dalle sigarette del giovane Nick. Tuttavia, l’elemento mistero in questa serie funziona un po’ meno che in altre serie, sopratutto per chi ha già letto il romanzo del Re.

Degna di nota è anche la performance di Mary‑Louise Parker, nei panni della signora Sigsby, direttrice dell’Istituto. L’attrice di Weeds riesce con efficacia a portare sul piccolo schermo il dualismo di un personaggio così sfaccettato e complesso. Incatenata tra la solitudine, i fili di un telefono e un controverso gioco di potere con il capo della sicurezza Stackhouse (Julian Richings).

Insomma, i primi episodi di The Institute ci hanno convinto, ma non del tutto.

locandina The Institute, Credits: MGM+
Credits: MGM+

La serie sembra sospesa tra la voglia di piacere – e in parte ci riesce – e quella sensazione un po’ sciapa di volere (e meritare) qualcosa di più. Soprattutto se pensiamo al numero di serie attesissime che affollano questo 2025: da Squid Game a Dexter: Resurrection, passando per Welcome to Derry e l’ultimo atto di Stranger Things (di cui abbiamo finalmente una data di uscita).

Per emergere in un panorama seriale di questo calibro serve ben più di una storia che galleggia sulla superficie del già visto. Il rischio, altrimenti, è quello di restare una serie godibile, sì, ma destinata a non lasciare il segno. Un antipasto, insomma, per placare l’attesa (fin troppo lunga) di titoli che parlano allo stesso pubblico, ma con ben altra forza.

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