ATTENZIONE, l’articolo contiene SPOILER sulla quinta stagione di The Handmaid’s Tale. Parleremo dei primi episodi in un appuntamento speciale di Attenti a quel TriHoS, domenica 18 ottobre alle 21.30 sul profilo Instagram di Hall of Series.
Scompari, macchia maledetta! Scompari, dico! Ebbene, è venuto il momento di agire… L’inferno è buio… Vergogna, mio signore, vergogna! Come? Sei un soldato e hai paura? Che bisogno c’è di preoccuparsi se qualcuno lo venga a sapere, dal momento che nessuno può chiamarci a renderne conto? Eppure, chi avrebbe mai pensato che il vecchio avesse tanto sangue?
William Shakespeare Lady Macbeth: atto V, scena I Macbeth
Il dolore lascia una traccia, fuori e dentro di noi. Per quanto tentiamo di coprirlo, di lavarlo via, lasciamo ditate appiccicose di disperazione ovunque, che insozzano le nostre pareti interiori e le superfici esteriori di ogni cosa. Vasche da bagno, finestrini, tazze di caffè. Tutto macchiato di dolore.
Anche il senso di colpa lascia una traccia, dentro e fuori. Lui è più corrosivo, ci dilania dall’interno e cancella progressivamente i contorni delle cose fuori di noi, rendendoci ciechi a tutto tranne che a lui. Guance di bambini. Macchiate di senso di colpa.
Ma la cosa che macchia di più, sia fuori che dentro, e che non va davvero mai via, è il sangue. Macchia vasche da bagno, lavandini, finestrini, tazze di caffè, bacon, corpi di bambini indifesi e nudi, pronti per il bagnetto. Per quanto cerchiamo di coprirlo, di lavarlo via, lui sarà sempre lì a ricordarci il dolore, il senso di colpa e, soprattutto, quanto abbiamo goduto a togliere la vita a un altro essere umano.
The Handmaid’s Tale apre la sua quinta stagione con due episodi visivamente sontuosi e a dir poco strazianti sul piano emotivo, entrambi diretti dalla protagonista Elisabeth Moss. Tornata in veste di regista, dopo aver diretto due episodi della quarta stagione, la Moss fa indugiare la macchina da presa sul suo volto, paralizzato in uno sguardo fisso, di quelli a cui ci ha abituati la serie in questi anni.
Ma l’espressione che June ha sul volto, in entrambe le sequenze di apertura di questi due episodi, è qualcosa che non abbiamo mai visto prima. June è animalesca, appagata nella sua sete di sangue eppure già nuovamente assetata, convinta e inamovibile nel suo desiderio di vendetta. Dopotutto, è il sogno il momento in cui il nostro Es ci parla e ci fa comparire davanti le cose che vogliamo, e in entrambe le scene di apertura di puntata sentiamo la canzone All I Have To Do Is Dream degli Everly Brothers.
Questi primi episodi di The Handmaid’s Tale danno una direzione già piuttosto precisa della quinta stagione. June è una donna traumatizzata, forse la più vessata dal regime di Gilead, la donna a cui Fred Waterford, Serena Joy, Zia Lydia e il restante corollario di cortigiani della teocrazia dal pugno di ferro hanno tolto più di tutte le altre. L’elaborazione dell’esperienza vissuta a Gilead è un processo che non ha avuto nemmeno il tempo di cominciare: a questo già devastante compito si è aggiunto quello di superare le conseguenze psicologiche di un omicidio.
Come se non fosse già abbastanza doloroso, questo inferno di apparente tranquillità e normalità fatto di bagnetti alla figlia, giochi in scatola e appuntamenti a teatro col marito, June deve confrontarsi con un’agghiacciante consapevolezza. Le è piaciuto uccidere Fred. Se fosse tornata a casa, dopo la mattanza nei boschi insieme alle altre ex Ancelle, e avesse estorto al marito un rapporto sessuale, come aveva già fatto nella quarta stagione, non saremmo stupiti. Ormai June riesce a rapportarsi con il prossimo unicamente attraverso il linguaggio della violenza.
Questi due episodi introduttivi della quinta stagione di The Handmaid’s Tale mostrano come il desiderio di vendetta possa diventare un tarlo capace di avvelenare qualsiasi cervello e, allo stesso tempo, riesca a mantenere comunque uno stato di apparente normalità. June si ritrova con le sue compagne di mattanza, la mattina dopo, per fare colazione insieme, quasi come per festeggiare il delitto appena compiuto. La voracità con cui le ex Ancelle mangiano rispecchia la ferocia con la quale hanno straziato il corpo di Fred. “Come un branco di lupi selvatici”, dirà più tardi Serena.
Eppure, nella piattezza di questa apparente normalità affiorano qua e là macchie di consapevolezza. Le tracce di sangue che June lascia ovunque, persino sul volto della sua bambina, sono la traccia tangibile che un confine, materiale e immateriale, è stato attraversato e che niente potrà più essere come prima. Per quanto lei si sforzi di lavare via, di coprire quella dannata macchia, lascerà sempre ditate sporche di dolore, di rabbia, di odio, di vendetta ovunque intorno a lei.
Scoprire che Emily, che credeva ormai al sicuro tra le braccia della sua famiglia, è tornata a Gilead a caccia di Zia Lydia, avvelenata da un tarlo che lei stessa ha contribuito a instillare nella sua mente, fa crollare definitivamente June.
La consapevolezza che straccia il velo di ferocia che pervade la sua mente, focalizzata sulla prossima preda come un animale, fa emergere un senso di colpa che la porta persino a costituirsi, nel tentativo di elaborare il dolore attraverso l’unico linguaggio che ormai comprende e conosce: la violenza, in questo caso somministrata attraverso la punizione della legge. E proprio in questa scena abbiamo l’unico spiraglio di ironia, anch’essa feroce, di questi episodi di The Handmaid’s Tale: June non ha commesso alcun reato, un cavillo burocratico fa sì che la sua caccia notturna nei boschi non sia perseguibile penalmente. Se la caverà con una multa di 88 dollari, “da pagare anche online”, un prezzo ridicolo e grottesco per l’amputazione di una vita, insieme a quella di un anulare.
Forse è proprio la sensazione di impunità, unita al fallito patetico tentativo di auto-punizione, che rinvigorisce in June la sensazione di aver fatto la cosa giusta e alimenta la sete del sangue di una nuova preda. “Ha fatto una cosa orribile che andava fatta”, la rassicura Tuello, l’ombra di Serena Joy, diplomatico al punto da riuscire a conciliare la sua ammirazione per le gesta di June con un totale asservimento ai teatrali capricci della vedova Waterford.
Serena, insieme a June, condivide un processo di elaborazione del lutto. Ma se June sceglie di seguire la strada della violenza cieca, rabbiosa e incontrollabile, Serena è più teatrale, calcolata, subdola ma implacabile. “Elegante ma brutale”, come dice il comandante Lawrence, travestendo la migliore definizione di Serena in una innocua metafora sull’hockey. Il secondo episodio della quinta stagione di The Handmaid’s Tale, Balletto, è un esercizio di recitazione della divina Yvonne Strahovski, che con le sue micro espressioni, la sua presenza scenica regale e la gravidanza che regalano al personaggio una fisicità ancor più giunonica ci mostra una donna che, al pari di June, è pronta a lottare.
Il dolore reale per la perdita di Fred si mescola alla necessità di rendere teatrale tutto ciò che riguarda la sua figura, innalzandolo a martire di Gilead, quando la sua stessa nazione lo aveva già bollato come traditore. Serena non si rassegna a un funerale modesto, che faccia presto cadere nel dimenticatoio Fred Waterford, padre della patria, rendendo lei, madre della nazione, una donna pericolosamente sola con un bambino in un paese di impianto patriarcale. L’addio della nazione che lui ha contribuito a fondare lo renderà un eroe, una figura mitica, rendendo lei, che può brillare solo della luce riflessa dal marito, una regina, una dea intoccabile da difendere e per cui combattere.
Le due donne sono pronte a sfidarsi, non sappiamo per quanto ancora solo a distanza. Nonostante June sia ormai uscita dall’arena di Gilead, Gilead non ha lasciato la sua mente. Per quanto si sforzi di dimenticare, di girare pagina, Gilead e Serena sono sempre lì, a ricordarle che esistono, che sono pronte a lottare e, soprattutto, che hanno la sua bambina, Hanna. Vedere il suo volto sui maxi schermi ha per June lo stesso effetto che ha il rumore di uno sparo per un reduce del Vietnam.
Il passato che ritorna, a macchiare indelebilmente il presente di The Handmaid’s Tale, troppo fragile e inconsistente per reggere.
La solenne scena del funerale di Fred si conclude con un momento carico di simbolismo. La macchina da presa indugia sui volti di June e Serena, come se fossero l’una di fronte all’altra e come se l’Ancella fosse inginocchiata di fronte alla Moglie. Le due donne possono confrontarsi faccia a faccia, scambiandosi una promessa reciproca di morte. Ora ognuna ha tolto qualcosa all’altra e la distanza, anche fisica, tra loro si sgretola: sarà June a inginocchiarsi ai piedi di Serena o sarà la Moglie a piegare le ginocchia di fronte all’Ancella?
I primi episodi della quinta stagione di The Handmaid’s Tale si concludono lasciandoci col cuore in gola, nonostante le pedine siano state appena disposte sulla scacchiera. Non dimentichiamo anche i momenti forse secondari di questi episodi ma fondamentali per costruire quel tappeto narrativo di ansia e tensione emotiva che questa serie è ormai maestra nel creare. Uno su tutti quello in cui Esther, ex Moglie e ora Ancella, ha un inquietante incontro con il suo futuro Comandante. Non dimentichiamo nemmeno Janine, l’Ancella che più di tutte avrebbe meritato una redenzione e un’altra possibilità. La sua morte, se confermata nei prossimi episodi, priverà The Handmaid’s Tale del contributo del personaggio che più di molti altri ha incarnato il concetto più vero di Resistenza.
Una resistenza gentile, non violenta, che cela sotto un velo di apparente remissività e rassegnazione una volontà di ferro di sopravvivere.