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Fatevi un favore: andate a vedere Io Capitano. E fatelo, se possibile, al cinema

Un film necessario. Io Capitano è, in due parole, un film necessario. Espressione della quale si strabusa fin troppo spesso per titoli che di necessario avrebbero in realtà poco o niente. Ideale invece per l’ultima fatica di uno dei migliori registi italiani viventi, Matteo Garrone.

Io Capitano è necessario perché arriva al momento giusto. Perché arriva nel modo giusto. E perché offre uno squarcio differente su una questione del quale si parla quasi sempre a sproposito: il tema delle migrazioni dall’Africa all’Europa. Lo fa ribaltando la prospettiva, come pochi avevano saputo fare finora con velleità artistiche d’alto livello e il gusto per uno storytelling finalmente appropriato. Garrone sveste noi occidentali dai ruoli di soggetto e oggetto della questione, mettendo loro al centro da protagonisti assoluti. A differenza degli altri, quasi tutti gli altri. Gli altri che parlano di loro come se fossero meri fattori collaterali. Marginali e ridotti ad asettici dati statistici. Evocati al massimo – con stucchevole patetismo – per strumentalizzare un dramma, farlo proprio e affrontarlo su un vago piano umano solo quando l’ennesima tragedia è di una portata tale da impedire di voltarsi dall’altra parte.

Garrone, però, è fatto di un’altra pasta. E Io Capitano non nasce con l’idea di esaltarne il talento – già certificato da una decina abbondante di film e un trentennio scarso di carriera – bensì per mettersi al servizio di una storia col mestiere di un cineasta navigato che sa lasciare un’impronta fortissima anche quando sembra volersi tenere sullo sfondo. Se possibile, in quei momenti più ancora più che in quelli dalla maggiore intensità creativa.

Attraverso Io Capitano, allora, Garrone propone sul grande schermo una storia universale che si incastona però in un contesto chiaro, riconoscibile ed esteticamente impattante, per certi versi inedito. Una di quelle storie che sembrano esser state raccontate un milione di volte, anche negli ultimissimi anni. Ma con una distanza da parte del narratore che non segna in alcun modo un distacco, affatto: Io Capitano, infatti, disvela con onestà e crudezza il corpo dei freddi articoli che riempiono qua e là le pagine dei giornali del nostro Paese, spogliandoli con audacia d’ogni prospettiva politica. Li mette davanti ai nostri occhi, col filtro autoriale di un regista che sa fondere il realismo della tragedia con la speranza fiabesca di un’avventura che troverà seguito chissà dove. I paragoni si sprecano, come al solito: inevitabile il confronto con le altre opere di Garrone, delle quali Io Capitano sembra essere erede organico ben al di là delle apparenze, e con titoli di riferimento come il “solito” Pinocchio, l’Odissea e una lunga serie di romanzi di formazione che trovano un nuovo respiro all’interno degli intrecci più essenziali della pellicola.

Io Capitano, a modo suo, è quindi un film speciale nella sua apparente normalità. Un film che parla di migranti, tenendo fede fino in fondo alla natura del participio presente senza ricorrere ai prefissi che spostano le vicende sui nostri egoismi: è attuale e asseconda la cronaca in perfetto equilibrio tra la necessità di testimoniare e di non affondare le radici in un approccio eccessivamente documentaristico. Migranti, come ne è piena la storia d’ogni parte del mondo per la natura stessa dell’essere umani. Con la storia di due ragazzi come tanti altri; tanto riconoscibili da appiattire le distanze tra “noi” e “loro“. Seydou e Moussa, d’altronde, non scappano via da una guerra né sono in qualche modo costretti dagli eventi ad affrontare il viaggio che spezzerà l’idillio fanciullesco per catapultarli anima e corpo nella disillusa vita adulta: partono da Dakar per vivere il “sogno europeo”, realizzarsi ed evitare di fossilizzarsi nell’ordinarietà di un’esistenza che sentivano esser stretta. Migrano nella stessa misura in cui potrebbe farlo un qualunque altro occidentale di sedici anni destinato a lidi più allettanti, e lo fanno con l’innocenza che avrebbe caratterizzato ognuno di noi in una situazione affine, Ma lo fanno trovandosi di fronte a ostacoli atroci dall’inenarrabile virulenza, e questo fa tutta la differenza del mondo. Una differenza che Garrone non enfatizza mai in alcun modo, come volgarmente si fa pressoché sempre in questi casi: si “limita” a offrire una grande storia dagli impliciti toni epici, non un punto di vista. E nel farlo, è semplicemente gigantesco dal primo all’ultimo minuto della pellicola.

Alla luce di tutto ciò, sarebbe stato più che legittimo attendersi un forte eco mediatico sulla pellicola. Perché il tema è quello che è, Matteo Garrone è chi è e Io Capitano gode già di diversi riconoscimenti molto prestigiosi: ha ottenuto, infatti, Il Leone d’Argento alla regia e il Premio Marcello Mastroianni all’attore protagonista Seydou Sarr nel corso dell’80esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, ed è inoltre candidato per rappresentare l’Italia ai prossimi Oscar. Il pubblico, però, dov’è? Io Capitano, in sala dallo scorso 7 settembre, ha superato negli ultimi giorni i due milioni di euro di incasso. Pochi. Non pochissimi, ma molti meno degli undici abbondanti investiti. E non certo all’altezza di un’opera del genere. Diventano ancora meno se prendiamo in esame i risultati dei tre che hanno finora incassato di più in Italia nel 2023. Specie per quanto riguarda i primi due, non è difficile capire quali siano: Barbie, primatista inarrestabile, ha portato a casa la bellezza di trentadue milioni di euro, Oppenheimer ventisei e Super Mario Bros venti. Una buona notizia, per certi versi: grazie ai grandi titoli d’oltreoceano – film oltretutto più che validi su un piano più strettamente qualitativo, almeno nei primi due casi – la gente è tornata al cinema dopo anni di soffocanti affanni. Benissimo. Ma perché non ci torna per guardare un bel film italiano? Un film necessario, ben pensato, ben girato e ben recitato. Un film amato dai critici, e questo può valer tanto quanto. Ma che trova poi una corrispondenza in quel che vediamo in sala, e questo vale sì parecchio.

Perché non dovremmo attenderci di più da un titolo del calibro di Io Capitano?

Ci siamo abituati talmente tanto all’idea di avere un cinema di “serie b” rispetto a quello statunitense da non vedere niente di strano nella gigantesca disparità tra il pur validissimo Barbie e il nostro Io Capitano. Ma è giusto farlo? No, non lo è. E sarebbe sbaglio imputare tutto al pubblico che sceglie, perché in tanti casi la scelta non è stata nemmeno proposta: pur essendo un film di Matteo Garrone – uno dei registi di maggior peso del nostro panorama cinematografico – che è stato distribuito dall’importantissima O1 Distribution, per molti non è stato semplice trovare Io Capitano in sala. E non solo nei paesini di provincia, ma anche in tanti capoluoghi di provincia o addirittura metropoli. Io Capitano c’è, esiste e combatte, ma è quasi invisibile anche se non parliamo certo di una produzione indipendente. E non è stato accompagnato da una campagna mediatica all’altezza del suo potenziale, a differenza del fenomeno Barbienheimer che ha caratterizzato visceralmente il 2023 della settima arte. Evidenzieremmo l’ovvio se parlassimo delle fisiologiche divergenze distributive tra un kolossal statunitense e un film d’alto livello italiano, ma sarebbe bene riflettere con più attenzione sul tema e smetterla di accontentarci: Io Capitano è una grande opera e merita di esser gestita da tale con maggiore audacia da parte di tutti. Come meriterebbero altrettanto tanti film italiani validissimi degli ultimi anni resi, ignorati dal pubblico e mal supportati dal sistema. Un sistema, quello del nostro Paese, del quale si tende ormai a parlare quasi solo in termini negativi, aprioristicamente. Sarà anche vero quello che dice Aurelio De Laurentiis a proposito dei film italiani, ma è altrettanto vero che non sia sempre così.

Francamente, fa rabbia. Perché Io Capitano vale certo molto più di un decimo di Oppenheimer o Barbie. E intristisce l’idea che tra alcune settimane, nel momento in cui le (poche) programmazioni del film si concluderanno ovunque, Io Capitano verrà messo da parte. Chiuso in un cassetto da riaprire timidamente quando verrà distribuito su una o più piattaforme di streaming per poi esser chiuso di nuovo. Conquistare tutti a Venezia, evidentemente, non è sufficiente. Così come non è sufficiente andare oltre le storture storiche di un certo cinema italiano per attirare l’attenzione di un pubblico che si riversa in massa verso altri lidi. I soliti lidi. Lì finito perché spesso non ha manco l’idea dell’esistenza di un’alternativa. Un’alternativa tutta italiana. Una di quelle che ci auguriamo possa trovare l’unica occasione possibile per esplodere davvero, seppure ormai “postumo”: la conquista dell’Oscar. Lo meriterebbe? Più di tanti titoli che hanno vinto in passato la statuetta destinata al miglior film internazionale, senza alcun dubbio. E allora non ci resta che sperare in questo, almeno in questo. Con un ultimo invito: nel momento in cui vi scriviamo, Io Capitano è ancora presente al cinema e merita di esser cercato, se anche non si dovesse trovare per puro caso. Fatevi un piacere: guardatelo. E visto che siete in tempo, fatelo al cinema. Barbie e Oppenheimer sopravvivranno alla grande anche senza il vostro biglietto, Io Capitano no. E noi italiani, di Io Capitano, abbiamo altrettanto bisogno. Soprattutto una volta scorsi i titoli di coda.

Antonio Casu