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È Stata La Mano Di Dio – La realtà è scadente, ma il cinema ha bisogno anche di lei

È Stata La Mano Di Dio è ufficialmente sbarcato all’interno della piattaforma streaming Netflix, e lo ha fatto dopo aver fatto un giro nelle sale cinematografiche. È Stata La Mano Di Dio, ma per noi – in questo caso – è stata quella di Paolo Sorrentino, il regista premio Oscar che sembra esser stato programmato per riuscire dove chiunque rischierebbe. Riesce a essere qualunque cosa voglia, ma senza mai perdere ciò che davvero è, ciò che gli permette di essere tale. Perché Sorrentino non è solo quello che vediamo nella mastodontica e perfetta La Grande Bellezza. È anche quello che abbiamo appena visto: piccolo, intimo, delicato. Dal grande Colosseo di Roma, ci ritroviamo di fronte al mare di Napoli, ma neanche per una volta – durante la narrazione – dimentichiamo quello che sappiamo verrà dopo: perché questa è la sua storia e per fortuna quello che avviene dopo i titoli di coda è noto a chiunque. Sorrentino diventa un regista, e ci salva tutti.

Ma È Stata La Mano Di Dio parla soprattutto di come sia stato lui a salvarsi, nonostante stesse annegando nei fiumi dell’abbandono, della solitudine, della disperazione. Questa è la sua storia, ma neanche per un attimo – durante la narrazione – lui si mette al centro di questa. È un paradosso, chiaro. Come si fa a non essere al centro della storia, se questa è tua? Ci si riesce. Ci si riesce se sei Paolo Sorrentino.

è stata la mano di dio

Perché È Stata La Mano Di Dio è un’infinità di cose, e sono tutte proiettate verso una chiara e ben definita strada: la realtà è scadente, ma il cinema la brama, necessita di essa. Senza questa realtà, questo film non sarebbe mai esistito. Perché il compromesso esistenziale tra quello che c’è dall’altra parte dello schermo e noi, è lo scambio. Noi diamo a lui, e lui dà a noi. Noi vendiamo le nostre realtà, e lui le riformula. Lo fa nello stesso modo in cui Sorrentino ha riformulato la sua storia senza cadere mai nel pietismo, o nella Tv del dolore. Per questo motivo ha probabilmente diviso il film due tempi totalmente differenti che riescono comunque a incastrarsi: nel primo la quotidianità della normalità, e nel secondo la quotidianità del dolore. Ed è questo dettaglio a fare la differenza, e a far comprendere a tutti gli effetti la realtà di questo film. Le sofferenze che vengono raccontate non cadono mai nel teatrale perché sono impregnate di una normalità che di solito, in queste biografie, viene plasmata in qualcosa di diverso. In questo caso, questa stessa sofferenza, viene consegnata a noi in un modo estremamente drammatico, ma sempre silenzioso: è tutto normalissimo. Sentiamo, insieme al protagonista, il peso delle giornate che non passano, e il caldo asfissiante di un’estate che non sa finire, non promettendo mai – così – un un nuovo inizio.

C’è solo una promessa per il protagonista, ed è il cinema. Non sa perché, e non sa neanche come farlo, da dove partire. Se Napoli può essere una promessa, o un incastro. Ed è per questo motivo che viaggiamo e riscopriamo una Napoli meravigliosa, ma piena di silenzio. La percepiamo nello stesso identico modo con cui la percepisce lui, vittima di un abbandono destinato a segnarti, a cambiarti. Non poteva essere una Napoli felice quella vista dai suoi occhi, ma certamente i suoi confini lo sono sempre stati. Erano delle promesse, qualcosa da superare. Qualcosa – che forse – poteva promettere di più di una realtà scadente.

Ed è così che Sorrentino porta avanti una narrazione che procede passo dopo passo verso un terreno fertile, ma che da lontano sembrava privo di tutte le possibilità. Spiccare il volo è sempre stato – in quel momento – qualcosa di impossibile. Ma le rivoluzioni esistono, anche se portano il peso di dover avere il coraggio di farle accadere.

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Ma l’esigenza di essere travolti da una scossa non abbandona neanche per un attimo il protagonista, restituendogli – così – quella minima forza necessaria per sentirsi vivo, e sperare in qualcosa. E il coraggio non gli manca. Per questo gira per la città cercando qualcosa a cui aggrapparsi, sperando di trovare nei registi che incontra la frase perfetta per rivoluzionarsi, per diventare un regista. Ed è per questo motivo che questo film – oltre a essere una piccola biografia – è anche, e soprattutto, un’ode al cinema. Un piccolo grazie per averlo salvato da qualcosa da cui si potrebbe anche non salvarsi mai. Un piccolo grazie per tutta la poesia che permette di fare, e che lui – da sempre – consegna a noi.

Paolo Sorrentino ha utilizzato questo film per ripartire da capo, per concedersi un’altra rivoluzione. Ha dato – ancora una volta – un senso a quello che gli è successo. Per questo motivo È Stata La Mano Di Dio è un film estremamente coraggioso, uno di quelli per cui quella scadente realtà è tutto, anche se drammatica, straziante, disperata. Da qualcosa, d’altronde, si dovrà pur ripartire. E Sorrentino è ripartito così, con tutto il nostro eterno stupore.

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