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Westworld potrebbe diventare realtà a Milano. Più o meno

Una scenografia di 3.500 metri quadri e spettatori che si muovono liberamente al suo interno: queste le basi dell’ambizioso progetto emergente nel cuore di Milano, in una zona tenuta ancora segreta dai creatori del progetto. L’idea ha alla base dell’ispirazione Westworld, la serie di successo di HBO, sebbene delle differenze sostanziali inevitabilmente ci siano.
Viene chiamato “teatro esperienziale”, o “teatro immersivo”; definizione che Satch, l’ideatore del progetto, non condivide in quanto riduttiva.
Satch è il nickname utilizzato da un giovane ventitreenne che ha saputo sfruttare le sue conoscenze teatrali e ingegneristiche per dare il “la” a un progetto che la Pulsarts (un’azienda milanese specializzata nella produzione di eventi) non ha esitato ad appoggiare.

Queste le parole di Satch, che si è espresso a 360 gradi su nascita e sviluppo del progetto:

“Tutto è iniziato a New York, dove stavo proseguendo i miei studi, quando all’improvviso vengo coinvolto in un progetto su questo nuovo tipo di teatro, che poi nuovo non è. L’idea di fare un teatro di questo tipo ce l’avevano già i Greci, anche Ronconi fece qualcosa di simile, ma solo oggi, con l’arrivo delle Escape Room, della realtà virtuale e di una narrazione televisiva di alto livello, il pubblico è più pronto a esperienze diverse. Nel mondo forse ci sono due o tre eventi grossi come questo, per il resto sono tutte cose piccolissime, quasi casalinghe. La grande distanza rispetto alla tradizione è che non diamo “la storia”, la raccontiamo prima a grandi linee per dare allo spettatore una infarinatura. Quando entri non lo fai per capire la storia, non lo fai per vivere un colpo di scena, hai già le connessioni, ma per vedere come i rapporti tra i personaggi si sviluppano realmente. La differenza è che non sai da subito chi è buono e chi è cattivo, lo scopri solo seguendo il punto di vista di un determinato personaggio e forse comprendi meglio anche le sue motivazioni”.

Per gli spettatori sarà possibile un minimo di interazione con i personaggi, e ciò che maggiormente rende l’esperienza esclusiva è il limite del punto di vista. Lo spettatore non è più onnisciente, ma vive parti della storia che decide di vivere, e rimane all’oscuro di fatti ai quali inevitabilmente non assisterà.

“La mia idea era di riuscire a creare qualcosa che fosse sempre teatro, ma andasse incontro a un pubblico che ormai ha cambiato i suoi gusti e il suo modo di fruire un racconto. Una volta il teatro era qualcosa di popolare, non elitario, ma non per questo doveva essere cabaret. Dal punto di vista del design è una bella sfida perché dobbiamo creare un racconto che spinga lo spettatore dove vogliamo noi nel momento che vogliamo noi, senza creare degli ingorghi o un effetto “pifferaio magico” in cui l’attore viene seguito da decine di persone che spesso non capisco bene. Idealmente lo spettatore apre una porta, si trova di fronte a una scena e la segue, poi l’attore si alza, si muove e altri lo notano, poi improvvisamente sparisce dietro una porta che lo spettatore non può aprire, così da essere portato a cercare un altro punto di interesse. Inoltre, ci sono sette attori principali, più alcuni di supporto, più le comparse, ma lo spettatore non sa chi è chi e questo dovrebbe evitare situazioni di affollamento”.

Insomma, una Westworld nella quale nessuna “gioia violenta” avrà mai una “violenta fine”.

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