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L’isola di Lost è una resa dei conti interiore

I protagonisti

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Ognuno di noi possiede l’opportunità unica e preziosa di poter lasciare dietro di sé una serie di tante piccole impronte che, messe in fila una dopo l’altra sulla linea del tempo, creano la storia di una vita. Un’esistenza che ha un movimento verso il futuro, quel misterioso “dopo” che nessuno di noi conosce e che possiamo solo abbozzare come un’orma sulla riva del mare. In un istante è già dietro di noi, è passato. Non ci è stata però data la possibilità di invertire questa direzione, di spezzare la striscia orizzontale scandita dai giorni e dagli anni che passano. I personaggi di Lost, tanto diversi quanto perfettamente definiti nella loro fallibilità, esattamente come noi non possono sfuggire a queste precise regole dettate dall’Universo. Ai granellini di sabbia della clessidra che scorrono inarrestabili dall’alto verso il basso, e che si accumulano sul fondo per non poter risalire più.

Jack e i suoi compagni non possiedono la capacità di rovesciare il tempo, di cancellare le orme con la stessa facilità di un’onda. O, se preferite, di poter spostare indietro le lancette del proprio orologio interiore, così da modificare ciò che è accaduto nel loro passato. Al contrario, le decisioni che nel “prima” sembravano eque e giuste, nel tempo presente assumono la forma di errori irreversibili, che pesano sulle coscienze dei protagonisti fino al loro arrivo sull’isola e anche successivamente. A quanti di voi lettori e lettrici è capitato almeno una volta di fermarsi a riflettere su come sarebbe andata se una delle orme impresse sulla sabbia fosse mancata. O se fosse stata segnata su di un altro punto di questa linea immaginaria che ci scorre sotto i piedi.

Tuttavia per il gruppo di sopravvissuti al volo 815 quel luogo paradisiaco e ostile diventa velocemente una clessidra inaspettata e, per alcuni, persino desiderata. Ricordo a tal proposito la sensazione di totale smarrimento e shock quando vidi per la prima volta John Locke paralizzato su di una carrozzina. Ma come – pensai – quest’uomo sull’isola non sta fermo un attimo, cammina, caccia cinghiali. Cosa sta succedendo? Oppure Sawyer, da truffatore senza scrupoli e vendicativo ad antieroe altruista e riconoscente. In Lost una circostanza tragica e sfortunata come quella di un incidente aereo, ha ribaltato le carte in tavola conducendo i nostri eroi sulla strada invisibile della redenzione e della facoltà di cambiare ciò che sembrava graniticamente immutabile.

Jack
Credits: ABC

La definizione di crisi in Lost viene modellata a seconda del personaggio che la tiene tra le mani. In fondo la reazione a un determinato evento è sempre soggettiva e le soluzioni di fronte a un problema possono essere molteplici e tutte ugualmente plausibili. In questo modo quello che era un deficit fisico, dunque, diviene fede. L’egoismo si trasforma in coraggio di amare gli altri. La solitudine di Desmond prende le forme di una missione: ritrovare Penny, essere la costante di qualcun altro, aiutare Charlie. La dipendenza di quest’ultimo diventa responsabilità. E così via.

Certo, proprio come avviene nella vita reale, ogni traguardo e ogni piccola conquista vanno sudati con tenacia, ostinazione e un briciolo di avventatezza. A rimuginare troppo infatti si finisce con lo stare immobili, incatenati alle proprie paure e alle mille preoccupazioni quotidiane. L’isola di Lost è quindi il luogo in cui gli enigmi, i salti spazio-temporali e la sopravvivenza fanno da contorno a ciò che conta veramente, ovvero la persona e la sua storia. Chi erano i personaggi prima dell’incidente e chi sono ora? Chi saranno in futuro?

La fortunata serie creata da J.J. Abrams sviluppa magistralmente il concetto di identità, di consapevolezza di essere unici, proprio come abbiamo scritto nelle prime righe di questo articolo. Inoltre, ogni essere umano su questa terra può essere potenzialmente legato a un altro. Se proviamo ad allontanarci ancora di più dal punto di vista antropocentrico, persino ogni essere vivente lo è. L’impronta lasciata da Jack può intrecciarsi con quella di Hugo e dalla somma delle due se ne può generare una terza, che magari prenderà il nome di Kate o di Claire. Le combinazioni sono infinite tanto quanto lo sono le caratteristiche esclusive che ci determinano come individui.

John Locke
Credits: ABC

È un po’ come il metaforico effetto farfalla reso celebre da alcuni libri e film. Un minuscolo atto all’apparenza insignificante compiuto da un singolo, può condurre a una serie concatenata di avvenimenti e di cambiamenti più o meno casuali e su larga scala. L’influenza è reciproca e tanto più si trascorre del tempo a contatto con un gruppo ristretto di persone, tanto più questo concetto diviene evidente. Sopravvivere su di un’isola situata da qualche parte nel Pacifico significa confrontarsi con un ambiente sconosciuto così come con esseri umani completamente estranei. Dei semplici passeggeri tra i tanti, con cui si condivide giusto il tempo di una chiacchierata superficiale prima di dividersi nuovamente allo sbarco in aeroporto (come ci viene ricordato anche da Tyler Durden in Fight Club).

In Lost gli incontri tra i personaggi però non sono mai un passaggio casuale o un punto di arrivo. La scoperta dell’altro, la riflessione che ne consegue e la riconciliazione sono il punto di partenza. L’incipit di una resa dei conti che porta alla crescita e alla catarsi. Come saprete anche voi, alcuni riescono meglio di altri a ritrovare il proprio posto nel mondo ma non è detto che ci riescano tutti. È così che avviene anche nella realtà ed è questa la chiave principale del successo di questa serie che perdura da oltre vent’anni.

Simbolicamente potremmo paragonare i protagonisti di Lost alle biglie del biliardo disposte in ordine sul grande tavolo verde e su cui l’unica biglia diversa, quella bianca, non è nient’altro che l’isola, il destino, le infinite possibilità. Nel momento in cui la biglia bianca entra in collisione con quelle colorate, ecco che queste ultime vengono spinte verso direzioni e traiettorie differenti, per poi avvicinarsi o allontanarsi nuovamente in base al procedere della partita. Non c’è niente di veramente prevedibile nelle vicende di Jack e compagni, se non la confortante consapevolezza che ognuno di loro può contare sull’altro, sull’aiuto reciproco anche se spesso faticoso e fatto di continue discussioni. In un sistema caotico e incerto come quello creato dall’isola, il compromesso per ritornare a vivere (e non solo sopravvivere) risiede nell’equilibrio tra le parti. Tra quelle biglie inizialmente sparate in ogni parte, prive di un movimento logico e di un senso.

In Lost i personaggi ritrovano proprio questo: il significato essenziale delle loro esistenze. Il perché valga ancora la pena vivere nonostante gli ostacoli e gli sbagli compiuti nel passato e nel presente. E grazie all’isola riescono a ribaltare il tempo, a spostare i granelli della clessidra nella loro posizione di partenza, nella parte alta del vetro. Dopo aver visto e rivisto questa serie tv, ogni volta che mi siedo su di un aereo mi guardo sempre attorno. Scambio due parole con il passeggero accanto a me e trascorro il tempo a osservare i volti dei miei compagni di viaggio, i loro comportamenti e le loro espressioni. Jack, Sawyer, Kate, John e tutti gli altri siamo noi. Siamo gli incontri casuali, i legami e le infinite combinazioni a bordo di un velivolo, capaci di rimediare e di riscrivere il nostro personale destino.