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Jack Shephard, la ragione che non ha ragione

Attenzione: evitare la lettura per non incorrere in spoiler su Lost

Io non credo nel destino.

Sì invece, solo che non lo sai ancora.

Lost può essere e significare molte cose, per Jack Shephard, l’uomo che non credeva nel destino e che poi ne è diventato alfiere, è stato un percorso d’individuazione irto di spine, abissi bui da scandagliare e terre da conquistare, sentieri ripidi che conducono al mutamento di una fisionomia in divenire. Straniero in terra familiare, egli si muove con assoluta semplicità nei grovigli dell’incertezza, guidato instancabilmente da un principio, quello della ragione, che mai lascia spazio alla paura e al dubbio, che tutto sa spiegare e comprendere, che è incapace di lasciarsi andare. Nel disegno perfettamente geometrico tracciato da Jack non c’è spazio per una volontà superiore, né per sedicenti sensi nascosti all’occhio vigile della logica, nulla si cela dietro la realtà di una tragica fatalità, c’è solo la sopravvivenza.

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Siamo con Jack nel suo ordine, sin dal primo istante di Lost, quell’occhio che si apre ci invita nella sua soggettività a sancire la nostra alleanza con il suo punto di vista. Insieme a lui scopriamo, deduciamo, indaghiamo, cerchiamo di sopravvivere alla crescente assurdità dell’imponderabile.

Jack riveste un ruolo cruciale all’interno del gruppo, è il pastore di genti smarrite, gettate in un mondo di caos e oscurità dove l’unica luce possibile può essere la sua visione. Allo stesso modo ricopre una funzione virgiliana per lo spettatore, colui che ci conduce e a ogni passo traccia una tassonomia precisa delle varie stazioni del nostro percorso, aggrappato alle sue sabbiose certezze (e che viaggio incredibile è stato).

L’Isola. L’Isola ci ha portati qui. Non è un luogo normale, te ne sarai accorto sicuramente. L’Isola ha scelto anche te, Jack. È il destino.

Quando ascolta queste parole pronunciate da John Locke, il percorso di Jack non è ancora maturo, impossibile per lui prestare fede a qualcosa di così irrazionale, ma nel profondo delle gesta di uomini grandi è possibile scorgere nature complesse. In Jack alberga una passione segreta, ardimentosa e irrazionale, che esplode ogniqualvolta si trova in un momento critico. La promessa fatta a Sarah prima dell’operazione, io ti guarirò, non ha nulla della freddezza matematica della scienza medica, è anzi il proposito di un uomo profondamente devoto al miracolo. Jack crede di salvarla, non lo sa, spera irrazionalmente, si abbandona, una breccia si fa strada nella perfezione della sua sapienza.

Sono molti gli esempi di passionalità estrema, ad esempio nella lotta disperata con la morte quando salva Charlie, o nel folle inseguimento del fantasma di suo padre. Giunto nel luogo del suo futuro compimento, Jack non sa ancora credere, ma è in cammino, ha iniziato un percorso, e i suoi occhi aperti a un nuovo tempo gli consentono di scrutare qualcosa di ignoto nell’oscurità.

Il cammino di individuazione di un uomo è passibile di errori, Jack ha guardato ma non ha visto, è fuggito dalla sua missione nell’illusione di controllare il proprio fato. È andato via dall’Isola, non ha dato ascolto alla chiamata del destino urlata da John, e ha scoperto di essere straniero nel mondo che credeva di controllare. È qui che il muro crolla, che la sua ragione non ha più ragione, di esistere e di legiferare, Jack è un uomo diviso dalla sua vera natura che ha fatto appena in tempo a scorgere e che ha poi perso per sempre.

Dentro di lui albergava già quel pastore profetizzato dal suo nome, urlava negli scorci dell’irrazionale, ma non ha saputo compiere fino in fondo il suo percorso di disambiguazione dalla ragione, troppo forte il bisogno di controllo, troppo ingombrante la morsa della responsabilità. Nemmeno noi sapevamo all’inizio, John sembrava un uomo disperatamente bisognoso di credere in qualcosa, nel riscatto da una vita passata a subire le angherie del mondo, nella speranza di essere speciale. Anche noi volevamo dare nome e forma a quel fumo nero, guardare negli occhi gli altri, forse volevamo resistere all’assurdità del destino, e anche noi, con Jack, ci siamo sbagliati terribilmente.

Il compimento del destino di un uomo passa inevitabilmente per grandi sofferenze, solo a un passo dal baratro si vedono le cose chiaramente, soltanto negli occhi neri del dolore è possibile trovare il coraggio del cambiamento. Lost parla di questo, del compimento del destino, configurando un percorso teologico che investe la figura di Jack Shephard, personaggio imperniato sul concetto di fede come scoperta. Sono tanti gli indizi della sua natura in divenire, primo fra tutti proprio la lotta titanica e parossistica contro l’ineluttabilità del destino, contro John. Jack sembra difendersi dall’idea che non tutto sia deciso dal caso, è come spaventato dall’essere parte di una cosmologia indecifrabile, inequivocabile in tal senso la sua reazione alla scoperta dei candidati di Jacob, l’ultimo e decisivo smacco alla sua ragione, quando ha la certezza di aver avuto torto.

Nel suo cammino si ritrova la strada percorsa dalla serie (qui la spiegazione del finale) che da affresco crudo e realistico di una sopravvivenza forzata si fa veicolo delle sorti del mondo, in un crescendo di domande sempre più fondamentali. Lost ci ha chiesto di sospendere il nostro giudizio allo stesso modo di come l’Isola ha fatto con Jack, aggredendo con le armi del fato le fondamenta di fango di un uomo che credeva di sapere. Egli si è trovato di fronte allo smascheramento delle sue bugie, colui che cammina tra noi ma non è uno di noi, sanzione indelebile sulla pelle di un uomo che ignorava. In modo analogo noi siamo precipitati in quel luogo infernale ignorando le regole di un destino titanico e siamo stati gravati del peso dell’inconsapevolezza.

Jack Shephard, l’uomo che non credeva nel destino ora è il suo alfiere, in quello sguardo finale lo conosciamo un’ultima volta e siamo con lui.

Jack Shephard ora crede, noi crediamo.

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