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C’è una domenica sera qualunque. Il cielo è plumbeo, fuori tira un vento freddo che preannuncia l’inizio dell’autunno. La televisione è accesa, ma le solite proposte sembrano stanche: i drammi esagerano con la moralità, le commedie cercano applausi facili. In mezzo a questo panorama, esiste una serie che sfugge a ogni definizione, una che da vent’anni sfida la logica del buon gusto dell’intrattenimento tradizionale: It’s Always Sunny in Philadelphia. Una sitcom che non consola, non redime e non insegna. Una commedia che ride di tutto, soprattutto di se stessa. Una lunga, delirante parabola sulla mediocrità umana, ma che in Italia non ha mai trovato la fama che merita. Eppure, per chi l’ha incontrata per caso o per curiosità, si rivela come una delle esperienze televisivo più liberatorie e paradossalmente autentiche di sempre (potete trovarla in streaming su Disney+).
Al centro di It’s Always Sunny in Philadelphia c’è il Paddy’s Pub, un bar decadente nella periferia di Philadelphia. È il cuore pulsante – o meglio, marcio – della serie, rifugio e prigione dei suoi cinque protagonisti: Charlie, Mac, Dennis, Dee e Frank. Non sono i classici personaggi da sitcom a cui siamo abituati: sono degli antieroi che non cambiano, non evolvono e non imparano. Restano sospesi in un eterno presente fatto di fallimenti, espedienti assurdi e piani destinati a crollare e incasinargli la vita. Ed è proprio in questa immobilità dei protagonisti che la serie trova la sua verità: It’s Always Sunny in Philadelphia non racconta la crescita, ma l’impossibilità di farlo.
A differenza delle sitcom tradizionali, questa serie non offre alcun conforto. Non esiste una morale finale, né nessuna lezione da imparare. La comicità nasce dalla crudeltà, dall’imbarazzo, dalla consapevolezza che ogni personaggio è una caricatura dei peggiori istinti umani: l’avidità, l’ego, la superficialità, la stupidità.
In un panorama televisivo in cui le risate servono a lenire, rassicurare e coccolare, in It’s Always Sunny in Philadelphia servono a disturbare.

Ogni episodio diventa un piccolo esperimento sociale: quanto può sopportare lo spettatore prima di cambiare canale? Eppure, dietro l’apparente volgarità, c’è una satira acutissima. La serie smaschera il perbenismo, la finta moralità, le contraddizioni del vivere moderno e della serialità contemporanea. È un teatro dell’assurdo che funziona proprio perché non fa sconti a nessuno.
L’universo del Paddy’s Pub è costruito su episodi che diventano esperienze quasi sperimentali. Per esempio, l’episodio “Charlie Work” è un gioiello di regia: un lungo piano sequenza che trasforma la routine del bar in un balletto frenetico e delirante, dove Charlie tenta di tenere tutto sotto controllo (fallendo, naturalmente). Oppure l’episodio “The D.E.N.N.I.S. system“, dove si svela il metodo manipolativo con cui Dennis conquista e distrugge le sue conquiste sentimentali. È uno dei momenti più disturbanti e insieme brillanti della serie: un ritratto tagliente del narcisismo tossico, raccontato con tono leggero e velenoso di una commedia perfettamente calibrata.
Ogni episodio è una variazione sul tema dell’autodistruzione.
Il gruppo di protagonisti inventa piani sempre più assurdi – aprire un ristorante illegale, inscenare tragedie, fingere malattie – ma l’obiettivo non è mai il successo. È il fallimento, rituale e catartico, che tiene insieme i personaggi e li condanna a ripetere sempre gli stessi errori, in un ciclo ripetitivo che non si spezza. Nel corso delle stagioni, It’s Always Sunny in Philadelphia ha toccato temi che altre produzioni televisive eviterebbe con cura: razzismo, omofobia, dipendenze, religione, sessismo. E lo ha fatto con un’ironia che non cerca di rassicurare ma, anzi, di far riflettere lo spettatore proprio attraverso lo shock.
In questo senso, la serie è un paradosso morale. I suoi protagonisti non hanno una bussola etica, ma il loro comportamento smaschera l’ipocrisia di chi ne ha una solo di facciata. Il risultato è una comicità senza filtri, che mette lo spettatore a disagio e lo costringe a ridere di ciò che non vorrebbe vedere.
È una forma di liberazione, ma anche di riflessione: ridere dell’orrore per sopportarlo, ridere della stupidità per riconoscerla.

It’s Always Sunny in Philadelphia è nata nel 2005 ed è, ad oggi, la sitcom più longeva della serialità americana. Eppure, non ha mai perso la sua energia iniziale. C’è qualcosa di rassicurante nel sapere che questa serie continua a esistere. Nel suo caos, nella sua sfrontatezza, nella sua assenza di qualsiasi evoluzione morale, rappresenta una costante: un piccolo universo dove niente cambia davvero, dove ogni personaggio resta incastrato nelle proprie ossessioni.
In un panorama televisivo dove quasi tutte le serie cercano una redenzione, una morale o un arco di crescita, It’s Always Sunny in Philadelphia si muove nella direzione opposta, dove mette in scena la mediocrità umana con un’onestà brutale. E lo fa da così tanto tempo che ormai è diventata una specie di rito, una finestra aperta su un mondo dove l’etica non esiste e dove ogni buona intenzione viene sistematicamente distrutta dal cinismo e dall’egoismo di chi la pronuncia.
Forse il segreto del suo fascino è proprio questo: It’s Always Sunny in Philadelphia non ha bisogno di essere capita, amata o giustificata.
È lì, rumorosa e volgare, a ricordare che ridere del peggio non significa essere peggiori, ma accettare che la realtà non è fatta solo di eroi, di riscatto e di giustizia. È un antidoto al sentimentalismo, una lente deformante che, però, paradossalmente, restituisce un’immagine più sincera dell’umanità. Forse è arrivato il momento che anche il pubblico italiano si accorga finalmente di questa serie. Che scopra tutto quello che c’è sotto la superficie scomposta di questa serie. It’s Always Sunny in Philadelphia è un antidoto alla retorica, una risata sgraziata ma sincera contro la pretesa di essere migliori di ciò che siamo.
E così, mentre molte serie finiscono per dissolversi nel tempo, questa serie continua a resistere, come un esperimento impossibile che non smette mai di funzionare. Forse non tutti l’ameranno, e va bene così. Ma chi la scopre, anche solo per caso, capisce in fretta che non è una semplice sitcom: è un piccolo, assurdo miracolo televisivo. Un promemoria che, nel mondo del cinismo e del nonsense, la risata resta una forma di verità. E forse, proprio per questo, meriterebbe di essere finalmente capita, apprezzata e celebrata anche qui. Non sarà mai troppo tardi per scoprirla.




